I suoni immaginati

La musica nella città medievale

Doveva esser la primavera del 1976 e, caso più unico che raro nella stagione dell’Accademia Chigiana a Siena — rassegna all’epoca gravida di complessi cameristici e solisti celeberrimi — ebbi la ventura di assistere a un concerto dell’Early Music Consort diretto da David Munrow. Un’esperienza straordinaria. Tutti suonavano un po’ di tutto e cantavano canzoni di crociata, virelais o frottole quattrocentesche in un curioso mix stilistico com’era d’uso per gli inglesi dell’epoca. Sei anni dopo conobbi Andreina von Ramm: una splendida amicizia durata molti anni. Lei era la cantante dello Studio der Frühen Musik, la versione tedesca dell’Early Music Consort, un gruppo nato alla fine degli anni ’50. Andreina suonava l’arpa, la ribeca e l’organo portativo e, ovviamente, cantava. Una voce, molti strumenti musicali, con Sterling Jones e i suoi strumenti ad arco e Thomas Binkley con gli strumenti a plettro. Ho anche suonato con loro (ma Thomas era già morto, ahimè), e per me fu come se un chitarrista di paese fosse stato invitato dai Beatles. I nostri gruppi — l’Ensemble senese di musica antica, l’Ars Mensurabilis e poi il Dramsam di Paolo Cecere, con cui ho suonato e cantato per oltre un decennio — erano costruiti su quel modello. Tanti strumenti, tanti timbri. Una o due voci, semmai un gruppettino vocale in occasioni speciali.

Anche quella era “rievocazione”, rifacendomi all’argomento del post della scorsa settimana. Rievocazione perché — e lo dico a distanza di tanti anni, avendo abbandonato la musica “pratica” da più di vent’anni e quindi con un giusto distacco — quel medioevo ce lo siamo immaginati, influenzati dalla letteratura e dall’arte: ci siamo immaginati un medioevo sonoro che probabilmente, o almeno nella sua quotidianità, non è mai esistito. Ancora adesso ci immaginiamo feste e banchetti scanditi da piccole orchestre di ghironde, liuti e trombe, come nelle miniature (rinascimentali) nei libri d’ore, preziosissimi messalini per ricchissimi e nobilissimi soggetti, che però mantenevano cappelle di quattro o cinque cantori e al massimo un organista.

Ci immaginiamo orchestre di vielle, liuti e salteri, come in molte Maestà o Madonne in gloria, come se quello fosse il riflesso celeste di ciò che succedeva sulla terra (e non viceversa).

Ci immaginiamo sposalizi con tanta musica, come nelle Nozze di Fauvel, protagonista del romanzo di Gervais du Bus dei primi anni del ‘300. Fauvel, la Bestia che porta nel nome i sette vizi capitali, si sposa con Vanagloria e festeggia solennemente le sue nozze. Qui davvero le ciaramelle si armonizzano con i salteri, le arpe con gli olifanti e le trombe, i liuti coi ciaramelli. Ma attenzione: Fauvel è l’Anticristo, o perlomeno il suo alter ego (“Tu es d'Antechrist le courrier, / Son mesagier et son fourrier”, sottolinea Gervais), per cui le sue nozze “sonore” (blasfeme) con Vanagloria non sono altro che il rovesciamento, la perversione, di quelle Maestà, di quelle Madonne in gloria circondate da angeli musicanti.

E poi ci sono le Cantigas de Santa Maria di Alfonso X “el Sabio”, capolavoro dell’ultimo quarto del XIII secolo: cento canzoni alla Vergine Maria che ricordano i suoi miracoli in giro per l’Europa, e che nella prima stesura (cento cantigas più una di introduzione, come la Commedia o il Decameron) formano un libro dove il testo e la notazione musicale si accompagnano all’illustrazione del miracolo attraverso una serie di immagini miniate disposte come in un cartellone da cantastorie. Un’opera multimediale ante litteram, che il Re di Castiglia progettò ancora più gigantesca: addirittura 350 (o 365?) cantigas notate e miniate. Non riuscì a completarla, purtroppo.
Nel libro delle Cantigas de Santa Maria sono raffigurati strumenti musicali, suonatori a coppie di viole a ruota, launeddas — o meglio, ciaramelli multicalami —, zampogne, guiterne, vielle, ribeche, e chi più ne ha più ne metta: un’enciclopedia di strumenti musicali.
Appunto. Noi adesso sappiamo, grazie a una critica musicologica accurata, che quelle canzoni forse furono eseguite una volta al cospetto del Re Saggio, e poi basta. Restano una testimonianza muta, mai tràdita da alcun altro manoscritto, mai imitata da alcuna altra melodia trobadorica. Fu un’opera di magia della corte alfonsina? Forse sì, ma è una mia opinione personale. Sta di fatto che tutti quegli strumenti sono un elenco, un’enciclopedia, appunto. Nulla di quotidiano.

Non che la città medievale fosse senza musica, ovviamente. Nella Siena del Buongoverno, delle fanciulle danzano una carola proprio in primo piano, nel centro del dipinto. Ma ad accompagnarle c’è un’altra fanciulla che fa musica cantando sul ritmo di un tamburello coi sonagli. Un’usanza ancora viva nel nostro Meridione. Nessuno strumento “melodico”: solo ritmo ad accompagnare il canto.

Nel medioevo delle città è la voce che fa musica, che si fa musica: nella quotidianità, gli strumenti musicali sono piuttosto rari, perché abbisognano di una pratica specialistica e soprattutto gli strumentisti sono costosi. Certo, nella città medievale si potevano ascoltare le abilità sonore di molti trombetti, ma d’altronde il trombetto del Comune faceva spesso anche il banditore, e veniva pagato per questo, a parte che era un impiegato comunale e quindi poteva essere anche mandato a cercar donne che sapessero fabbricare polveri magiche, come abbiamo visto. Che poi dire “molti trombetti” è un po’ un’esagerazione: nel periodo più splendido della propria banda musicale, Siena poteva esibire nove trombetti pubblici; Massa di Maremma, nel suo massimo splendore, ovvero intorno al 1310, probabilmente non più di quattro. Assieme a un suonatore di ciaramello, in occasione della festa del santo patrono (mentre Siena aveva un ciaramelliere nell’organico pubblico).

Nel 1372, quando Massa di Maremma, spopolata dalla peste e dall’emigrazione dopo la sottomissione a Siena, il Consiglio deve occuparsi delle lamentele di Paradiso, sarto, e del suonatore di tromba (evidentemente superstite), che lamentano di non essere stati pagati: il primo per la confezione della veste coi colori del Comune consegnata al suonatore, il secondo per aver suonato per un anno e non aver visto ancora un denaro spicciolo.

A Firenze, i laudesi della Confraternita di S. Piero Martire, di cui ci sono arrivati i registri delle entrate e uscite, pagano regolarmente i cantori (non moltissimi, generalmente tre), che tra l’altro esercitano altri mestieri, come ad esempio:
1380 – A Lorenzo di Jacopo, cahanta le laude di XX maggio, lire nove. Ebbe per Dio per lui a Lionardo di Domenicho, ritagliatore, lire otto. A Lorenzo d’Andrea, lanaiuolo, di XXVI di maggio per suo salario…

E di strumentisti? Quasi nessuno. Nel 1340 si registra una spesa di quattro soldi “a’ tronbadori per la matina di Santa Maria a dì XII d’aghosto”, e un capretto del valore di ben tre lire dato nel 1393 a un tale Bacio “che chantò il pasio con la viola”. Bacio cantò il Passio di uno dei giorni della Settimana santa, accompagnandosi con la viola. Perché, tra l’altro, questo era il compito appunto della viola: accompagnare il canto suonando più o meno contemporaneamente tre corde, di cui solo una “tastata”.
Tra parentesi: oggi vediamo, nei concerti di musica medievale, suonatori di viella che la usano come fosse un violino, magari popolare, ma è una imprecisione: così al limite si suonava la ribeca (ricordate la novella del Decameron, dove Calandrino fa la serenata alla Niccolosa accompagnandosi con la ribeca, strumento ritenuto non particolarmente nobile?), non la viola, strumento nobile che aveva il compito di sostenere armonicamente lo strumento principale: la voce.

E poi i suonatori costavano! Il buon Bacio fiorentino, per cantare alla viola in una singola occasione, venne pagato tre lire, ovvero lo stipendio di tre mesi di un cantore. A Massa, il suonatore di ciaramello per suonare alla festa patronale prendeva quanto sei mesi di stipendio del custode delle balestre comunali. Insomma, se due o tre strumenti assieme li potevate forse ascoltare nelle case o nelle ville dei gran signori, se ne volevi di più dovevi come minimo meritarti il Paradiso, e attendere di arrivarci…

 

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