Balestrieri e fattucchiere

Storie di "armi non convenzionali"

Nel 1229 Siena e Firenze entrarono in guerra. L'antagonismo tra le due città era cosa vecchia: lo scontro tra le due maggiori realtà della Toscana interna, entrambe con mire espansionistiche, era ormai solo questione di tempo. L'espansione egemonica fiorentina degli anni Venti culminò, nel 1228, da un lato con la guerra contro Pistoia, dall’altro con l'alleanza strategica con Montepulciano, dove la politica fiorentina si imperniò sull'appoggio alla parte popolare del Comune contro i milites. L'appoggio di Siena a questi fuoriusciti segnò per la città l'inizio di una guerra di ampie proporzioni, lunga e complessa, che vide tra l'altro il "tradimento" dell'alleata Orvieto, passata dalla parte dei fiorentini. La guerra si protrasse per sei anni con alterne vicende, per poi concludersi nel 1235 con la stipula di un trattato di pace sostanzialmente favorevole a Firenze.

La documentazione, particolarmente abbondante, relativa alle spese sostenute da parte senese ci mostra, tra le altre cose, che ci troviamo di fronte a una guerra pienamente "moderna", in cui le parti in causa cercano con ogni mezzo di sopraffare l’avversario e assicurare la sopravvivenza della propria città. Proprio grazie ai dati forniti con inusitata abbondanza dai “Libri di Biccherna”, ovvero i registri delle entrate e uscite del Comune di Siena, è possibile stabilire che siamo ben lontani da una guerra «ritualizzata, ludica, sportiva», come qualcuno tende oggi ad attribuire all’età medievale in generale e ai Comuni italiani in particolare. Siamo invece in presenza di una serrata contrapposizione di forze, che mirano da un lato alla completa distruzione del nemico, e dall’altro alla salvezza della propria città, senza alcun risparmio di mezzi: una guerra, dunque, pienamente e tristemente «moderna».

I Libri di Biccherna registrano pagamenti super mittendis litteras et exploratores et spiones pro comuni Senarum, ovvero per sostenere una guerra di spie: cosa normale, se non fosse che alcune di queste azioni andavano oltre l’informazione o la controinformazione, includendo operazioni ben più raffinate. Ad esempio, nell'aprile del 1230 il Comune liquida ad Arnolfino, monaco di S. Salvatore a Isola, la somma di 30 soldi per un viaggio a Firenze con lo scopo di «parlare con gli astrologi fiorentini» e «provare se gli era possibile mettere discordia tra i Fiorentini». L’incarico ad Arnolfino non sembra consistere nel chiedere agli astrologi di fare false predizioni, come si potrebbe pensare, ma piuttosto di mettere in atto azioni astrologicamente guidate per creare disordine, utilizzando cioè la cosiddetta astrologia elettiva, finalizzata a far iniziare un’azione nel momento preciso in cui gli astri ne indicassero il successo. In quel periodo, del resto, molti astrologi (auguratores) erano al servizio dei Comuni e delle Signorie per supportarne le imprese belliche, come ad esempio Guido Bonatti per Firenze e Forlì, o il Maestro Bartolomeo per Siena. Anzi, il Comune senese ritenne che Bartolomeo non fosse sufficiente da solo in un momento così critico, tanto che gli pagò cento soldi per recarsi a Pisa e portare al servizio del Comune un collega, Orlando de Russa, "auguratore a Pisa", anch’egli ricompensato con cento soldi.

Ma ciò che più ci interessa è che alcune azioni contro i fiorentini (o gli orvietani) appaiono chiaramente come atti di magia di tipo negromantico, pagati senza scrupolo dagli uffici comunali e forse perpetrati anche con l’aiuto — diremmo oggi — di dipendenti comunali.

Una notizia come quella del pagamento a un cavaliere senese pro remuneramento servitiis que fecit quando ivit ad urbem veterem (Orvieto) et seminavit pulverem per civitatem istam è stata interpretata come un tentativo di guerra — diremmo oggi — chimico-batteriologica, ottenuta spargendo veleni, magari per contaminare le acque. Tuttavia, bisogna convenire che, per ottenere un risultato efficace, sarebbe servita una quantità notevole di polvere. Un indizio in questo senso proviene da altri pagamenti ad alcuni balestrieri per sagittare polveri nel campo nemico. Queste polveri dovevano essere montate sulla punta dei verrettoni tramite ampolle o sacchetti, di cui si trovano puntuali annotazioni di acquisto nei nostri straordinari registri contabili. Veleni potentissimi? Difficile, in un’epoca lontana dalla chimica industriale. Anche un moderno gas nervino, contenuto in un’ampolla e scagliato con una balestra, avrebbe effetti molto limitati.

Va anche considerato che questi pagamenti furono effettuati a balestrieri comunali, ovvero a quegli esperti di balestre grosse che il Comune senese acquistò o rinnovò proprio in questo periodo, e che venivano conservate nella "sala delle balestre" del Palazzo Comunale. Erano macchine potenti, costose e bisognose di manutenzione da parte di artigiani esperti. I balestrieri incaricati di lanciare le polveri facevano quindi parte di una milizia scelta alle dipendenze del Comune. In un caso, addirittura assieme a due altri dipendenti comunali, Guerzo e Ildibrando (altrove registrati come trombetti comunali), furono incaricati di cercare “donne” capaci di preparare “alcune medicine” da usare contro il nemico e perfino di farsi accompagnare da loro durante le operazioni di gittata.

Che le polveri potessero essere utilizzate a fini magici è cosa abbastanza nota: ad esempio san Bernardino Albizzeschi, in una predica tenuta nel campo di Siena, si vantò di aver fatto bruciare a Roma una strega, colpevole confessa di aver ucciso oltre dieci bambini e di averne fatto “polveri” per malie e sortilegi. È quindi plausibile che le polveri scagliate con le balestre grosse non fossero veleni, ma sostanze magiche, affatturate, dunque potentissime e slegate da un rapporto dose/effetto. Medicine: in fondo, il termine "farmaco" ha sempre avuto anche il significato di "veleno" o di "rimedio", persino magico. Polveri magiche, dunque, preparate da donne “sapienti” o anche da preti che, spesso, si rivelavano negromanti provetti. Di queste donne conosciamo alcuni nomi, come Sapia, moglie di Orlando Arrighi, o Quaglia, moglie di Uguccione Fortebracci.

Una figura, tra tutte, è particolarmente interessante: Galiena Gualenghi, pagata 20 soldi pro faciminis que fecit in exercitu florentinorum, probabilmente sorella di Arnolfo Gualenghi, la cui moglie, Gemma, ricevette 14 soldi pro medicina fiendi in tempore belli. È da notare che il termine facimen, cioè stregoneria, fattura, ha qui lo stesso significato di medicina. Galiena è un nome molto raro, come del resto Galieno. Ma è curioso che una donna esperta in medicine si chiamasse proprio come quel Galieno (o Galeno) che, insieme a Ippocrate, era considerato il padre della medicina, e i cui testi — tradotti circa un secolo prima dalla versione araba — costituivano la base dello studio universitario della disciplina. Come a dire che Galiena (forse) portava quel nome proprio perché le sue medicine erano ritenute davvero efficaci.

D’altronde, 20 soldi in quegli anni non erano pochi: corrispondevano al prezzo di circa sei staia di grano, ed erano molto più del salario mensile di un banditore comunale.

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