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Medioevo fantasioso
Tempo di rievocazioni storiche

Siamo alle porte dell’estate ed è tempo di rievocazioni storiche. Medievali, ovviamente. In Italia, specie in quella centro-settentrionale, non c’è borgo o castelluccio che non si cimenti in questa divertente attività, con tamburini e bandiere, dame, damigelle e nobiluomini, con la solita improbabile offerta gastronomica “medievale” e magari, se avanza qualche soldo, lo spettacolo di “musici” e, perché no, di mangiafuochi, che divertono tanto i bambini e che, assieme ai mangiatori di spade e alla donna cannone, fanno parte del mondo circense ottocentesco.
Certo, ci sono rievocazioni più blasonate (a parte le eccezioni importanti, come il Palio di Siena, che è rievocativo solo in parte ma affonda le sue origini – questo sì – nel periodo comunale), altre che indulgono a un medioevo fantastico, magari tolkieniano: ma in tutte c’è partecipazione e gran divertimento.
Ma perché proprio il Medioevo e non, che so, l’arrivo dei garibaldini o dei lanzichenecchi, o della Grande Armée napoleonica? Tanti anni fa me lo chiesi anch’io, anche perché credevo che le “rievocazioni” fossero fondamentalmente delle “ricostruzioni”. E il Medioevo, o meglio “i medioevi”, si ricostruiscono male: i documenti locali spesso non esistono più, e la storiografia della vita quotidiana – nonostante siano più di cinquant’anni che produce studi, assieme all’archeologia medievale – non riesce ancora a illuminare ampie zone d’ombra. Magari, per qualche epoca un po’ più recente, avremmo notizie più abbondanti.
Ma facevo un errore concettuale: le rievocazioni sono un mondo a parte, molto interessante (specialmente per gli antropologi culturali), e addirittura considerate patrimonio immateriale dell’Italia – insomma, un “prodotto tipico italiano”.
Come dicevamo, queste manifestazioni – a prescindere – vengono guardate con interesse e benevolenza dagli antropologi culturali, che vedono nella festa un momento costruttore di località, riconoscimento e coesione comunitaria. Con il rischio, però, che si dia per scontato che l’autenticità ricercata dagli antropologi coincida davvero con quella che sostengono di mettere in scena promotori e attori della festa. Molti antropologi pensano a una festa “storica” proveniente “dal basso”, assimilandola quindi a una festa “popolare” (e si sa quanto gli antropologi siano affamati di folklore), qualunque cosa ciò voglia dire o sia applicabile al panorama – spesso tradizionalmente rurale – della composita storia italiana.
Il che può non essere affatto vero, come certamente non lo è stato nell’Ottocento, punto di partenza del fenomeno, perché la nascita di una mitografia nazionale (romantica e medievale) ha una geografia piuttosto precisa, quasi esclusivamente urbana e socialmente elitaria. È un fatto – diceva Benedetto Croce – che mai come nell’Ottocento il Medioevo poté godere del favore delle élite intellettuali italiane. Carducci, una sorta di padre della patria aggiunto, santifica il Medioevo italiano in chiave identitaria; stessa direzione intrapresa da Pasquale Villari, che volle ravvisare nell’età di mezzo un modello culturale da offrire agli italiani. Su questo tema, vi consiglio un ottimo saggio.
Nel Novecento la situazione cambia. Dopo la Grande Guerra, il Fascismo cerca nuovi miti, sostanzialmente legati alla romanità, anche se – specialmente a partire dagli anni Trenta – promuove una politica sistematica di invenzione delle tradizioni, sia rurali che urbane, come strumento di comunicazione e costruzione del consenso. In questo contesto vengono valorizzate e promosse a livello nazionale feste tradizionali legate a un Medioevo visivamente sontuoso, come a Siena o a Firenze.
Nel secondo dopoguerra, specie in Toscana, le feste già esistenti vengono riprese e sostenute dalle amministrazioni di sinistra, mentre altre se ne creano (nelle principali città) con un consenso popolare ampio e trasversale. Negli anni Sessanta e Settanta il modello della festa storica con richiami medievalisti, pali e sfilate in costume si estende ai piccoli centri di provincia, per poi diffondersi generalmente come “festa popolare”, spesso d’invenzione, con tratti fantasy o cinematografici, e legata a contesti da sagra paesana.

Quello che non mi piace è il ruolo distortivo che queste manifestazioni hanno nella percezione storica: sostituiscono un Medioevo immaginato a quello che si può delineare – in modo frammentario ma documentato – dagli studi storici, anche locali che, tra l’altro, non risultano più numerosi o stimolati là dove si fanno questo genere di feste. A dimostrazione che rievocazione e storia vivono, se non in universi separati, almeno in ambienti profondamente diversi. E questo, a mio parere, è un lato negativo che andrebbe in qualche modo migliorato: non dico che la festa debba avere un ruolo educativo, ma almeno potrebbe stimolare una consapevolezza storica più autentica della propria terra, con buona pace degli antropologi culturali e della cultura “dal basso”.
Il discorso è complesso, ma vorrei portare qui un piccolo esempio, tra i tanti capitati negli anni. Ammetto, tra parentesi, che negli anni ’90, con l’Accademia abbiamo anche noi contribuito alla nascita di qualche “festa medievale” – come nel caso di Monteriggion di torri si corona o della festa della zucca a Venzone – ma abbiamo subito rinunciato a continuare perché avevamo idee diverse da quelle provenienti, perlappunto, “dal basso”.
Un pomeriggio, diversi anni fa, ci viene a trovare in Accademia un signore di L., un paesello del Friuli. Voleva una consulenza per realizzare una “rievocazione storica”. In sintesi: il campanile della chiesa locale era stato costruito sui resti – ancora visibili – di una torre, collocabile attorno al IX secolo. Questi resti erano l’unica testimonianza della “storicità” del luogo.
Questa l’idea: fare una rievocazione storica ambientata nel IX secolo, con tanto di mercato, armati, damigelle, ecc. Alla nostra obiezione che il IX secolo è un’epoca piuttosto problematica da ricostruire, che il “mercato medievale” così come lo immaginava non esisteva ancora, e che sarebbe servito almeno un evento-cardine, il signore rispose:
“Vorremmo festeggiare l’arrivo degli Ungari.”
Ricordo che uno di noi chiese, curioso: “Ma ci sono passati davvero gli Ungari, a L.?”
“Beh, sono passati dappertutto, in Friuli: saranno passati anche da noi. Anzi, pensavamo di farli arrivare a cavallo…”
“Ma ammesso che siano arrivati, loro depredavano, bruciavano, uccidevano, rapivano donne e bambini…”
“Certo che non possiamo dare fuoco a nulla, però gli Ungari potrebbero passare e stendere un velo nero sul mercato. Sarebbe spettacolare.”
“Ma lei si rende conto che festeggiare una cosa del genere è come se gli ebrei di Praga, fra trecento anni, celebrassero l’arrivo dei nazisti?”
“Che c’entra, è successo tanti anni fa.”
Ovviamente rifiutammo.
Comunque, L. ebbe la sua festa medievale: invitarono un gruppo folkloristico ungherese e finì a birra e gulash.
Poco male: due anni prima avevo assistito, basito, a Moggio Udinese, all’arrivo di Carlo Magno in persona, paludato in un largo mantello e con in testa un cappello a punta con lunga piuma – degno di un princeps della goliardia padovana degli anni ’40 del secolo scorso – che confermava solennemente un non so quale privilegio al locale abate, parlando in friulano.
L’anno precedente, invitati alla rievocazione della fondazione delle porte della città di Varese, fummo accolti da un personaggio vestito da centurione romano, con al petto un vistoso distintivo di Alberto da Giussano a spada sguainata. Alla mia osservazione sul fatto che si stavano rievocando porte che erano state tutte abbattute nell’Ottocento, rispose:
“Che c’entra…”
Aveva ragione. In effetti, avevo fatto una domanda da marziano.
Non da antropologo culturale.
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