La Maestà e i tempi

Riflessioni sopra una tavola dipinta

Nei giorni scorsi sono tornato per qualche giorno per attendere ad alcuni affari di famiglia, nel mio paese d’origine in Maremma, e ho colto l’occasione per visitare una mostra interessantissima sull’arte senese del Quattrocento ospitata dal locale Museo di Arte Sacra intitolata “Il Sassetta e il suo tempo” che fortunatamente era stata prolungata di qualche settimana. La mostra è decisamente bella, bene allestita e con un catalogo a dir poco sontuoso per un piccolo museo di provincia. Piccolo museo si fa per dire, perché contiene alcuni dei capolavori più interessanti dell’arte medievale toscana, tra cui la prima delle tre Maestà dipinte da Ambrogio Lorenzetti, opera che da sola merita un viaggio non comodissimo lungo le strade tortuose che si snodano attraverso le alture selvagge e boscose delle Colline Metallifere fino quasi al mare e che portano da Siena a Massa Marittima. Passando per luoghi straordinari come l’Abbazia di san Galgano e la chiesetta di Montesiepi, quella con la spada nella roccia, esempio di ciclo arturiano ancor prima che questo fosse scritto da Chrétien de Trois. Tra l’altro una volta arrivati a Massa Marittima, vicino alla piazza, si può ammirare gran parte di quello che doveva essere un grande e insolito affresco duecentesco che decorava le fonti della canova pubblica, il cui tema rimanda, con poche differenze, alle miniature che illustrano un manoscritto del  Roman de la Rose, che assieme ai romanzi arturiani rappresenta l’esempio più interessante di romanzo medievale. L’affresco massetano però è decisamente anteriore a quel manoscritto della Biblioteca Nazionale di Parigi. Tanto per dire sulla trasmissione della cultura nel medioevo.

Ma torniamo alla Maestà del Lorenzetti. Io non sono uno storico dell’arte, per cui non riesco a godere di raffronti e questioni aperte sulle attribuzioni e così via, ma mi piace viaggiare nella complessità del pensiero medievale attraverso l’arte. Specialmente attraverso la musica ma anche attraverso l’architettura, che in fondo anch’essa è fatta di ritmi ed armonie. O attraverso le arti figurative, come nel caso della Maestà di Massa, dove una folla di personaggi, di angeli musicanti e offerenti è quasi compressa attorno al trono della Vergine posto su tre gradini colorati su ognuno dei quali siede una delle tre virtù teologali. Un’opera di straordinaria armonia e colma di simboli che costringe l’osservatore a passare dal generale al particolare, per cercare di imparare la lezione che il pittore (o meglio il suo committente) ha voluto impartire agli osservatori. Che a quel tempo erano semplicemente i fedeli, dato che questa grande tavola dorata era probabilmente posta sull’altare maggiore della chiesa agostiniana di san Pietro all’Orto, probabilmente fino alla sua soppressione. In un periodo di analfabetismo, anche se non così catastrofico come si racconta, tutti potevano ammirare la Vergine dai lunghi occhi con il Bambino teneramente appoggiato al suo volto, ma non tutti sapevano riconoscere una per una le tante figure di santi e di profeti. Magari potevano immaginare la musica suonata dai quattro angeli in primo piano, eseguita con gli stessi strumenti che si suonavano nelle feste della città e magari conoscevano il linguaggio simbolico dei colori con cui erano rappresentate la fede, la speranza e la carità, che poi era il linguaggio dei colori dei vestiti con cui si usciva e ci si riconosceva e quindi forse potevano capire che quella strepitosa figura alata vestita di color di fiamma viva con in mano un dardo e un cuore fiammeggiante rappresentava la Carità, virtù che procede dalla Fede e dalla Speranza. Forse quasi tutti non conoscevano appieno il significato agostinano del cuore trafitto da una freccia nè conoscevano i versi del Paradiso dantesco ma probabilmente gli agostiniani massetani che avevano commissionato la grande tavola avevano spiegato loro la carità con parole semplici, indicando proprio quella figura, in un sermone. Un popolo che non capiva il latino dei canti, ma che ne riconosceva la sacralità attraverso i moti dell’animo. Anche se non sapevano dell’esistenza di Boezio. O intuiva il Divino attraverso le armonie messe su tavola dal pittore. Un Divino che si manifestava nelle proporzioni delle architetture, nei leoni o nei suonatori d’olifante che facevano capolino dai capitelli o dalla sommità delle finestre, fino ad arrivare al ritmo dei gesti e delle posture dell’officiante del Rito sacro. Certo, chi assisteva al rito era escluso dall’officiarlo, ma sapeva che comunque le proprie preghiere, attraverso quei gesti e quelle parole, sarebbero arrivate, diciamo così, a destinazione. Poi venne il Concilio di Trento, il barocco con i suoi altari di stucco e la Maestà fu rimossa. Poi venne Napoleone, venne la nuova Libertà e allora la tavola dipinta fu considerata solo una tavola, segata in cinque pezzi e utilizzata come contenitore per il carbone in Palazzo Comunale fino alla sua riscoperta e al restauro, in tempi recenti.  Poi venne un Concilio dove si disse che ognuno doveva capire, che ognuno doveva partecipare. Altri mondi, altre società e forse un’altra Chiesa. Per questo la Maestà adesso riposa in un museo, anche se parla ancora a chi non è distratto.

Forse è colpa mia se di fronte all’architettura brutalista di alcuni santuari o all’estetica negata di alcune opere contemporanee di arte sacra non sento alcun ritmo, così come non odo echi del Divino nelle canzoncine del reverendo Machetta, anche se vengono quotidianamente e stancamente cantate da tutti quei pochi fedeli rimasti nelle chiese. Forse sono io che sbaglio se mi viene a mente la domanda del grande Gillo Dorfles: “è sufficiente la fede per far accettare la mediocrità di tanta arte sacra contemporanea?” Probabilmente sbaglio. O forse no. Ma non è rilevante.

Quella sera, assieme ai miei cari, ho cenato all’aperto nella piazza centrale, una delle più belle della Toscana, con a sinistra il palazzo dei Tolomei, al lato destro i segni del potere comunale con le torri merlate e il Palazzo Pretorio pieno di stemmi e con davanti la Cattedrale, un miracolo di travertino posto in alto e in prospettiva, quasi a schivare sdegnosamente il confronto con i potenti del Mondo, posti in basso. Qui i tortelli col sugo, rigorosamente di tradizione massetana, in questa piazza triangolare ferma nel tempo alla metà del Trecento, hanno davvero un altro sapore.

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