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La cucina dell’incantamento
Il cappellano Paolo e i diavoli fritti

Nell’anno del Signore1361 il presbitero Paolo, figlio del quondam Andrea de Corsica, cappellano della chiesa di Sassetta nel territorio pisano, finì sotto processo davanti al tribunale dell’Inquisizione della diocesi di Siena. Il capo d’imputazione: pratiche magiche nefande. Gli atti processuali sono eloquenti. Da circa diciotto anni, Paolo — in Corsica e in altre terre della Toscana — invocava e adorava diavoli per ottenere rivelazioni sul futuro, facilitare legami carnali tra amanti e compiere malie a fini personali. Tra i suoi strumenti preferiti: il pepe e il sale, gettati nel fuoco con parole magiche per infiammare i cuori delle donne, cioè "ponendo dictum piper et sale in ignem et dicendo: Così arda il cuore di Monna cotale come fa questo pepe e questo sale nel mio amore”. ma anche, e soprattutto, facendo altre malie e fatture per procacciarsi l'amore delle femmine “scrivendo il nome di alcuni diavoli su foglie di pervinca o di lauro, come Belzebù, Babul e Baldasar, e facendo con esse foglie frittelle da dar da mangiare alle donne da concupire".
Sì, proprio frittelle.
Non semplici frittelle dolci o salate, ma preparazioni cariche di intenzione e potere: Paolo impastellava foglie di lauro o di pervinca su cui aveva inciso i nomi demoniaci, per poi friggerle e offrirle alle donne che desiderava. Un rito seduttivo mascherato da gesto conviviale, un goloso sortilegio nascosto tra farina e olio bollente. La diabolica malizia di trasformare il cibo quotidiano in uno strumento magico, il pasto in un talismano. Una pratica che riecheggia il sapere medico e popolare del tempo — dove la cucina era strumento di cura per il medico che sapeva di Ippocrate e Galeno, mentre poteva attingere a rituali terapeutici antichissimi nelle mani delle vetulae, dei simplici o degli empirici fino a sfociare apertamente nella negromanzia in personaggi di maggior cultura e magari adusi alla grammatica, insomma che potevano leggere testi latini, come il nostro prete di Sassetta.
Il ricettario quattrocentesco di Maestro Martino da Como ci fornisce una ricetta per le frittelle di lauro, mentre altre testimonianze anche più antiche segnalano frittelle composte con altre foglie aromatiche, come la salvia. Ma la pervinca? È una pianta senza vere attestazioni culinarie o terapeutiche, però il suo fiore a cinque petali richiama la stella a cinque punte: simbolo solare e, secondo alcuni erbari astrologici, associato all’influsso del Sole. Insomma è una pianta astrologicamente significativa, come d’altronde il lauro, pianta solare legata ad Apollo.
È proprio qui che la magia cerimoniale incontra la cucina: nella scelta della pianta, nel gesto dell’incisione, nella ritualità del friggere. Il pasto diventa in questo modo un veicolo per influenzare lo spirito, attraverso una trasformazione magica che passa per la padella. E Paolo, evidentemente, non improvvisa: i nomi che incideva sono gli stessi indicati nei trattati negromantici, come si legge nel manoscritto CLM 849 della Biblioteca Bavarese o nello lo Zodiologion di Kancaf l’Indiano, trascritto alla corte di Alfonso X il Saggio. In quest’ultimo, un talismano d’amore viene fabbricato incidendo nomi e immagini su una lamina d’oro, sotto una specifica mansione lunare. In luogo della lamina, Paolo aveva una foglia, da celare nell’impasto fritto.
Ma se nella magia cerimoniale il talismano è cosa da portare, qui lo si mangia. E questo cambia tutto. In un contesto in cui l’atto magico è rigido, scandito da formule, materiali e tempi astrologici precisi, sorprende che la cucina — arte fluida, familiare, quotidiana — entri a far parte del cerimoniale. Eppure, non è forse la cucina essa stessa una forma di rituale? Mescola elementi, trasforma materie, e soprattutto agisce sul corpo. Forse per questo il confine tra magia e gastronomia poteva, in certi casi, dissolversi.
Non sappiamo da dove Paolo avesse appreso tali pratiche né quali fonti avesse davvero consultato, ma certamente la magia doveva essere, al tempo, uno dei presidi quotidiani per raggiungere scopi complessi, difficili o, spesso, inconfessabili. Se il Comune di Siena pagava donne sapienti per spargere polveri magiche contro l’esercito fiorentino, nella sua canonica il prete Paolo cercava di vincere una battaglia del tutto personale ma per lui non meno importante: quella per il sesso e il potere.
“E che venga pure l’inferno”, ci sembra di leggere tra le righe.
- Quello magari dopo - sentenziò l’inquisitore, frate Antonio da San Miniato, minorita, professore di Teologia ed inquisitore in Toscana contro l'eretica pravità. Reo confesso, il presbitero Paolo venne condannato a pubblica abiura, a portare la veste del penitente, oltreché ad essere privato dei privilegi ecclesiastici e allontanato dalla celebrazione della Messa. Inoltre venne condannato ad un periodo di carcere per espiazione delle colpe temporali.
In fondo l’inquisizione, a quel tempo, era clemente.
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