Il manichino senza volto

Il corpo come manufatto culturale

“Ma che cos’è l’esterno dell’uomo? Non solo la sua nuda figura e i suoi gesti istintivi che contrassegnano il gioco delle forze interne! Posizione sociale, abitudini, beni posseduti, vestiti, tutto lo avvolge, tutto lo modifica”
Johann Wolfgang von Goethe (in Phisiognomische Fragmente di J. C. Lavater)

Due settimane fa abbiamo parlato di una mostra sugli anni ’60 e abbiamo lasciato in sospeso un tema molto interessante, ovvero quello del rapporto tra moda e corpo. Argomento ovviamente molto ampio e difficilmente sintetizzabile in poche righe: ma c’è un momento interessante, proprio durante il sesto decennio del secolo scorso, che rivoluziona (e complica moltissimo) la concezione del corpo in quanto manufatto culturale e che ci dà la possibilità di fare alcuni brevi osservazioni.

Il concetto della costruzione del corpo come atto culturale e sociale è un tema noto agli antropologi contemporanei, anche se non specificatamente a proposito dei vestiti, i quali però “possono far sì che modellino bene il braccio, o il seno”, ma al contempo “ci modellano a piacer loro il cuore, il cervello, la lingua” come osservava Virginia Woolf. È anche chiaro come la "ri-creazione" del corpo femminile secondo i dettami della moda e dell’appartenenza sociale non sia certamente una novità, almeno nella cultura occidentale: però nel corso del decennio degli anni ’60 del secolo scorso questa ri-creazione è stata rapida e tumultuosa ed si è realizzata nel nome della liberazione del corpo stesso, specialmente se giovane: un corpo, insomma, divenuto un oggetto sociale individuale. Tra l’altro questa liberazione, negli anni ’60 e successivi non è solo femminile: il nuovo codice che si va formando contribuirà a suo modo alla conquista dell’uguaglianza fra i sessi. Da questo periodo in poi i maschi si prenderanno cura di sé più che in passato: più attenti alla novità entreranno nella logica narcisistica, un tempo ritenuta esclusivamente una prerogativa femminile.

Nella rivoluzione della moda degli anni '60 si assiste alla perdita di importanza dell'abito sartoriale a a favore del pret-a-porter, abito pronto e prodotto in larga scala a prezzi decisamente più accessibili, dove però le dimensioni sono prefissate e standardizzate. Nasce quindi la taglia dell’abito. Da questo momento in poi sarà il corpo che si dovrà adattare all'abito e non viceversa. Specialmente il corpo femminile che viene sì liberato, ma anche esibito e quindi modificato secondo canoni nuovi ma essenzialmente giovani. Fino agli anni ’60 i giovani non hanno avuto un grande ruolo sociale prima di raggiungere la maggiore età. In questo decennio invece le cose cambiano e i giovani diventano una nuova e importante categoria di acquirenti. Ma l’essere giovani non basta: scomparsa la maggiorata degli anni ‘50, il prototipo di bellezza caratteristico degli anni sessanta diventa quello della donna – bambina, vagamente androgina e maliziosa secondo un gioco basato sulla prorompente sessualità della giovinezza come valore da liberare e allo stesso tempo da esibire. Una moda, quindi, non finalizzata all’eleganza ma alla seduzione. Nel 1955 Vladimir Nabokov pubblica il romanzo Lolita che viene trasformato in film da Kubrick nel 1962, film che farà scalpore perché giocato sul corpo adolescente della giovanissima attrice Sue Lyon. Sette anni dopo usciva il primo (ed unico) album musicale del gruppo rock inglese Blind Faith, musicalmente straordinario ma che fece scalpore essenzialmente per la copertina, dove un' undicenne veniva mostrata a seno nudo con in mano un modellino di aereo. L’immagine fu fortemente voluta dal chitarrista Eric Clapton come metafora della fede cieca nel futuro (blind faith, appunto), ma il pubblico la interpretò come una Lolita. E fu censurata.

Questo modello di corpo giovane viene rapidamente diffuso dai media del tempo: attrici, cantanti, figure della jet-society vengono prepotentemente imposti come modelli validi per un’ampia categoria di età: nel caso, il corpo deve ringiovanire o perlomeno imitare il corpo giovane. “Prima le figlie volevano somigliare alle madri, ora è il contrario” affermava all’epoca Yves Saint-Laurent.

Ma esiste anche un nuovo modello di diffusione, antropologicamente più inquietante, che occhieggia o viene esibito dalle vetrine dei negozi di abbigliamento: il manichino. Diverso da quello d’uso sartoriale, questo oggetto si impone come forma di rappresentazione del corpo desiderato. Un corpo inerte, artificiale ma antropomorfo, capace di mettere in relazione l’umano attraverso la modulazione di un’unica immagine, ottimale, del corpo. Un corpo perfettamente vestibile e quindi modello del corpo che deve essere vestito, indicatore della categoria della quale si vuole far parte se si vuole “apparire giusti” secondo i canoni fisico-estetici e anche salutistici vigenti. I manichini diventano strumenti fedeli e silenziosi del progetto di ri-creazione sociale del corpo. Solo corpo, ovviamente, senza valenza fisiognomica o individuale. Mera rappresentazione di corpi o di parti di corpi: torsi maschili che mostrano solide muscolature addominali o busti femminili con i seni moderatamente piccoli ed eretti. Manichini senza volto, senza identità, silenti portatori di forme da memorizzare: bambini alti e snelli, figure femminili sottili ed armoniche, maschi alti, ben proporzionati e tonici. E soprattutto giovani.

La rivoluzione della moda e conseguentemente del corpo, iniziata negli anni ’60 del secolo scorso grazie ad una serie di fattori concomitanti e non soltanto dalla ricerca di un nuovo mercato, diventerà nei decenni successivi un fenomeno molto complesso oltreché un grande business dove salute, estetica e appartenenza saranno miscelate dalla grande industria con risultati nuovi e, perlomeno antropologicamente, molto interessanti. Anche se probabilmente non si è assistito alla nascita di un nuovo linguaggio del corpo, certamente il suo linguaggio ne è uscito modificato e arricchito da una rivoluzione fatta anche di interventi "fisici" e non solo tessili. Compreso la modifica indelebile della superficie cutanea, riservata un tempo a categorie ben precise e spesso marginali della società, fino al "diritto ri-creativo" del proprio corpo anche a rischio della salute. E a prezzi popolari.

Anche il volto ha subito, seppure più gradualmente, lo stesso destino. Chi è un po’ aduso alla letteratura antica non può che provare un brivido osservando un marchio indelebile sul volto del trapper o del ragazzotto alla moda. Ma del volto, ovvero dell'area culturalmente più importante del corpo, parleremo un'altra volta.

Reply

or to participate.