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“E pur con cibi di liquor d’ulivi”

Dante e la bruschetta

 Qualche settimana fa ho pubblicato in questa newsletter una riflessione sulla panzanella, ripromettendomi di continuare il discorso parlando di un altro piatto povero, ormai ubiquitario e simbolo di quella “cucina italiana” commerciale che si ispira a molti piatti dalla tradizione, magari “migliorandoli” e rendendoli appetibili al grande pubblico. La storia della cucina di tradizione è comunque ricca di scambi e sincretismi consolidati nel tempo, per cui alcune vivande tradizionali di un luogo preciso e circoscritto possono a un certo punto uscire all’esterno per i motivi più vari, dall’emigrazione all’imitazione, modificarsi secondo le esigenze e le disponibilità  del luogo, fino ad essere considerato a tutti gli effetti un cibo “tradizionale”.

È il caso della bruschetta, uno dei simboli dell’odierno fast-food all’italiana (assieme a pizza, piadina e simili) che dal luogo di origine del suo nome, limitato all’Appennimo marchigiano-abruzzese, se n'è andata allegramente in giro per il mondo.

Pane “brusculato”, cioè tostato al fuoco, insaporito da una generosa “strusciata” d’aglio e immerso nell’olio nuovo, magari con due granelli di sale sopra. Un cibo praticamente ubiquitario nelle zone di produzione dell’olio d’oliva, con denominazioni tradizionali diverse, tra cui appunto “panzanella” nelle fonti toscane, pane sale e uoglio come ricorda il lessico napoletano ottocentesco del Vincenzo Caso o pani ‘nfandatu nni l’ògghiu come si diceva a Palermo. Che poi da questa vivanda, semplice e direi perfetta nella sua sapidità, si sia passati a fettone di pane a cassetta tostato con sopra pomodori tritati, salse le più varie o accostamenti divertenti come formaggio e frutta, questo dipende dalla versatilità della ricetta e dalla fantasia di chi la prepara. Magari non è più una bruschetta, ma lo stesso si potrebbe dire delle piadine farcite pubblicizzate dai media.

Ma torniamo alla bruschetta “originaria” per fare una digressione che a me sembra interessante, anche se piuttosto leggera. D’altronde fa caldo e nonostante che i pensieri più alti siano freddi e secchi perché della natura di  Saturno o di Mercurio, come diceva Marsilio Ficino, certamente i miei sarebbero comunque troppo caldi e umidi per essere sopportabili.

 

Senza dubbio il peccato di Adamo fu quello di superbia, ma accanto a questa esegesi del racconto biblico cominciò ad affiancarsi, a partire dal III-IV secolo, un’interpretazione molto diversa e più corporea del peccato originale: Adamo cioè peccò di gola. Insomma Adamo ed Eva avrebbero trasgredito il divieto divino per gustare un frutto raro e prelibato, come sostiene, ad esempio, san Giovanni Cassiano: “fu un atto di gola, da parte di Adamo, mangiare  il frutto dell’albero proibito”. San Girolamo, dal canto suo, è anche più severo: “il primo uomo fu scacciato dal Paradiso per la sua sottomissione al ventre piuttosto che a Dio”, mentre san Gregorio Magno ammonisce che quando si cede al peccato di gola “si commette il peccato di Adamo”.

Dal peccato di gola, tra l’altro, sarebbe difficile difendersi efficacemente: è ancora san Girolamo a fornire al riguardo un ragionamento molto interessante: “Attraverso i cinque sensi, come se si trattasse di finestre, i vizi entrano nell’anima. Ma senza quattro di essi (la vista, l’odorato, l’udito e il tatto) potremmo anche vivere, ma senza il gusto e senza i cibi non è possibile far sopravvivere il corpo”. La conclusione è quindi quella di mangiare solo quanto possa bastare al sostentamento, perché il sovrappiù potrebbe nutrire il peccato. E dalla gola alla lussuria il passo è brevissimo: in fondo Adamo forse non avrebbe mangiato lo squisito e proibitissimo frutto se non fosse stato spinto a farlo dalla Iussuriosissima Eva, come dice Dante. È ancora Giovanni Cassiano che ce lo dice: “Neppure Adamo avrebbe sofferto le tentazioni della lussuria se prima non si fosse lasciato sedurre dalle arti del demonio e non avesse ceduto alla passione della gola, che è madre della lussuria”. Alcuni secoli dopo Oddone di Cluny avvertirà che “chi riempie il ventre dà nutrimento a Venere”,  ma sarà san Pier Damiani, con molta meno buonagrazia e con la schiettezza del buon romagnolo, a ricordarci che “i genitali sono incitati all’accoppiamento con tanto maggior ardore, quanto più lo stomaco è riempito dall’abbondanza di cibi e dall’ingurgito di bevande”.

Pier Damiani è una figura ambivalente nella critica contemporanea. Da un lato, valutandone il pensiero, i filosofi lo considerano come l’incarnazione perfetta dello stereotipo dell’oscurantismo e dei “secoli bui” mentre gli storici tendono ad esaltarlo per il suo ruolo di riformatore della Chiesa e di salvatore del papato da una decadenza che pareva inarrestabile. Su questo santo, comunque, pesa tuttora il giudizio fortemente negativo di Étienne Gilson (1922), che lo ritrae come un avversario della logica e dell’indagine razionale, contro le quali avrebbe fatto valere l’onnipotenza divina. Uno dei passi più citati dai suoi detrattori contemporanei è contenuto nel suo De Sancta Simplicitate: «Ecco, fratello: vuoi imparare la grammatica? Impara a declinare Dio al plurale». Poco sopra, Damiani ricorda al confratello che la conoscenza è stata usata dal demonio per perdere Eva e che la stessa arma è impiegata contro i suoi figli. Insomma un fondamentalista antilogico e oscurantista.

Anche se la critica più recente è meno inclemente con lui, rivedendo con nuovi strumenti critici le affermazioni di Gilson, il nostro santo non è certamente un esempio di pensiero moderato. Anche all’epoca, nonostante che fosse stato elevato a vescovo di Ostia, ovvero a cardinale, e fosse consigliere di diversi papi, da  Stefano IX ad Alessandro II, Pier Damiani dovette essere un personaggio scomodo: si pensi per esempio al suo il Liber Gomorrhianus, dove si scaglia violentemente contro la sodomia del clero, che doveva essere già all’epoca piuttosto diffusa e in qualche modo se non tollerata, almeno tenuta tranquillamente nascosta. Giovane e già celebre maestro di arti liberali, Pietro decide di lasciare il mondo e farsi monaco nel monastero di Fonte Avellana: una scelta radicale di un uomo dai pensieri radicali. Sarà in questo monastero che Pier Damiani, che si fa ormai chiamare Petrus Peccator, morirà nel febbraio del 1072, all’età di 69 anni.

Dante Alighieri incontra Pier Damiani in Paradiso, nel cielo di Saturno, pianeta alto e lento: il cielo della contemplazione. È il canto XXI, un canto ricchissimo di luci e silenzi dove, tra le altre cose, il nostro santo parla a Dante di se stesso, ricordando la sua vita nel monastero di Fonte Avellana:

Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: Quivi
al servigio di Dio mi fe' sì fermo,
che pur con cibi di liquor d'ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne' pensier contemplativi.
(Par. XXI, vv.112-117)

Ma che significa “con cibi di liquor di ulivi”? Sembra ovvio: cibi a base d’olio, con cui sostenere il corpo mentre lo spirito si dedica alla contemplazione. È un verso trascurato da tutti i commentatori, dall’ Ottimo al Venturi, fino ai contemporanei, che liquidano la cosa come vitto frugale, addirittura vegetariano (come se un monaco il venerdì non ci potesse condire, con l’olio, il pesce lesso) e comunque povero e di poca importanza, ovvero quanto basta per sostenere il corpo nello sforzo della contemplazione. Un verso irrilevante.

Non sono completamente d’accordo. Innanzitutto siamo nel cielo di Saturno, il cielo della contemplazione, che però è il cielo del pianeta malefico per eccellenza, il pianeta della melanconia, della bile atra. Ma attenzione però:

Noi sem levati al settimo splendore
che sotto 'l petto del Leone ardente
raggia mo misto giù del suo valore.
(Par. XXI, 13-15)

Ovvero in quel momento Saturno era congiunto al Cor Leonis, stella calda, cosicché tutto lo spettacolo che viene offerto a Dante nel settimo cielo, è sì uno spettacolo saturnino, ma temperato. E d’altronde non potrebbe essere diversamente, in Paradiso. E non può essere un caso, conoscendo la precisione simbolica dell’Alighieri, se l’unico riferimento al cibo presente in questo canto riguarda il liquor d’ulivi: l’olio di oliva, infatti, era considerato un alimento sostanzialmente temperato: al massimo, se ottenuto da olive mature e dolci, leggermente caldo e umido, come ricordava Galeno. E la temperanza è necessaria per la contemplazione.

Ma c’è ancora un particolare, che potrebbe essere piuttosto interessante: il monastero di Fonte Avellana si trova nell’Appennino marchigiano, in provincia di Pesaro e Urbino. Dove, come ricordavamo all’inizio, il pane intinto nell’olio con un po’ d’aglio e sale si chiama bruschetta da sempre, ovvero ”fetta di pane abbrustolito, strofinato con aglio su cui si versa l’olio della prima spremitura appena colato dal torchio per provarlo” come annotava nel 1881 Caterina Pigorini Beri, descrivendo una vendemmia nell’Appennino Marchigiano.

Possiamo ragionevolmente pensare che Dante voglia indicare questo cibo povero ma austero, temperato ma con una “spunta” collerica dell’aglio, come congeniale sia alla geografia alimentare del luogo che alla complessa figura del nostro santo? Intanto noi ci proviamo.

 Nel frattempo meditate anche voi, o miei venti lettori, sulla bruschetta finta della bruschetteria in franchising: con quella state sicuri che non avrete mai “pensieri contemplativi”. Tanto peggio per la vostra anima immortale: per quanto mi riguarda non vedo l’ora che ci sia l’olio nuovo. Il frantoio è già stato individuato.

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