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Il pan bagnato
Considerazioni sulla panzanella

Spero che prima o poi inizi l’estate. Per ora non ce n’è traccia, ma sono speranzoso. Anche perché prima o poi arriveranno sul mercato pomodori maturi e saporiti, finalmente. E poi cetrioli, peperoni e tutto quello che serve per preparare la panzanella, il mio piatto preferito quando fa caldo. Uno dei piatti più profumati della mia infanzia. Peperoni nella panzanella? Qualcuno storcerà il naso, ma la panzanella è un piatto di famiglia, e ogni famiglia ha la sua ricetta. C’è chi ci mette anche il tonno, la giardiniera sott’aceto, addirittura l’uovo sodo sminuzzato: la base, ovvero il pan bagnato con acqua e aceto, la cipolla rossa, i pomodori a pezzettini e il basilico rimane quella. Il resto è a gusto familiare. Un piatto saporito, capace di tentare di indurre, coll’arma della nostalgia, uno serio come Giosuè Carducci a lasciare Bologna per ritornare nella Maremma dei suoi anni migliori:
“E le stalle mugghiano. Mi paiono proprio gli stessi mugghi che io sentiva e capiva così bene negli anni migliori. Forse sono gli stessi bovi, e io finora ho sognato: mi richiamano: li intendo ancora. - Vieni, amico. Che fai di là dagli Appennini? Non hai anche tu lavorato a bastanza per la tua semenza di làppole e pugnitopi? Vieni: la panzanella con le cipolline e il basilico è così buona la sera! - Grazie, cari bovi: voi parlate toscano molto meglio dei contadini del padre Giuliani, e avete gusti molto più sani de’paolotti del Circolo filologico di Firenze […]” [1]
Piatto povero, la panzanella, talora poverissimo e diffuso in gran parte dell’Italia Centro-meridionale, con poche varianti. Nella versione più misera era il pasto dei lavoranti dei campi, specie in Maremma, dove nell’800 si andava a lavorare, come ci racconta il Fucini, partendo talvolta con tutta la famiglia dall’Appennino pistoiese o dalla Lucchesia, magari col sacco pieno di farina di castagne per farne necci e andando a spesso morire non tanto di stenti, quanto per colpa della comare, come chiamavano là la malaria. Questa è la descrizione del Pratesi del lavoro di questi braccianti:
Fradici di sudore, come già erano stati fradici per la guazza prima di giorno, falciavano, legavano le spighe, battevano il grano, caricavano sacchi o paglia nei carri; e i carri partivano gravi e lenti, suonando per quelle solitudini, festivamente, gli argentini campani, di cui il bove tranquillo par compiacersi, in mezzo al lavoro. Al mezzogiorno, per un poco, interrompevano la fatica, restando ognuno al suo posto. E il porta spese per quelle file, dispensando a tutti, in una scodella di legno, la panzanella [in nota: “pane inzuppato nell’acqua, con olio, sale ed aceto”], tre once di ventresca o di cacio scarse, come era d’intesa col padrone, e pane e acqua malsana. [2]
Un “vitto poco omogeneo e grossolano” come osservava nel 1884 il medico grossetano Alfonso Ademollo [3]. Una vita da bestie, insomma, scandita da pane bagnato e unto.
Nel senese, tra l’altro, non doveva andare tanto diversamente se attorno al 1892 Gabriello, quarantenne lavoratore dei campi di Siena ha questa dieta, come descritta da un medico del Regio Spedale: “credo non sia del tutto inutile il notare che il vitto del campo usato dal paziente nostro durante la mietitura consisteva in una panzanella o carni salate o formaggio al mattino” [4]

Diversa era ovviamente la panzanella dei contadini pigionali o dei piccoli proprietari. Qui siamo alla panzanella aggraziata, come direbbe Pellegrino Artusi, dall’aggiunta di un po’ di cetriolo e di un’erba profumata, generalmente il basilico ma anche la mentuccia. È la ricetta che riporta il Fanfani nel 1863 (che, come vedremo, apre un problema interessante di lessico):
Panzanella. E' pane arrostito e agliato, tenuto, nel tempo che si fa l'olio, sotto la strettoja un poco perché s'inolj, e mangiato.
C'è anche un'altra maniera di Panzanella, ma più povera; e consiste nel mescolare insieme pane inzuppato nell'acqua, cipolla, basilico, cetrioli, un po' d'olio, aceto in abbondanza, pepe e sale; e l'usano nelle case di campagna, pigionali o contadini, quando hanno molti seccherelli di pane, che in altro modo non potrebbero mangiargli, o anche per mandar giù il pane con maggiore appetito. [5]
Il lessico del Riguttini (che pubblica col solito Fanfani) ne dà una versione più essenziale, dove non c’è il cetriolo:
Panzanella. s.f. Pezzi di pane immollato, e poi condito con sale, olio e aceto, tritatovi anche della cipolla e del bassilico: «Per cena si fece la panzanella.» [6]
Da notare come nella panzanella della seconda metà dell’ottocento sia assente il pomodoro, che stenta ancora ad essere accettato come ortaggio e anche come condimento, una volta ridotto in salsa. È da notare anche il fatto che per panzanella si intenda perlopiù il pane abbrustolito e agliato zuppato nell’olio nuovo, oggi universalmente conosciuto come bruschetta (che invece è un termine originario dell’appennino marchigiano e pochissimo usato prima degli anni ’70 del ‘900): ma questa è un’altra storia interessante che mi riservo di raccontare un’altra volta.
Ovviamente la panzanella ha delle varianti regionali, ma che non ne alterano la sua essenza di pane secco bagnato in acqua e aceto, condito con olio e sale, con l’aggiunta di abbondante cipolla cruda. Una panzanella della metà degli anni ’70 del secolo passato ci viene da Pier Paolo Pasolini, preparata a Roma dall’amico Franco Citti:
Lo trovò alle prese con il taglio del pane. Un coltellaccio seghettato in mano e briciole che saltavano via ovunque. Sulla tavola una ciotola con i pomodori tagliati a pezzetti, in un’altra il rosso spento, venato dal giallo dei semi, del liquido della polpa. Spezzò grossolanamente il pane raffermo dentro quest’ultima, ci aggiunse l’aceto e un filo d’acqua. Dopo poco lo strizzò leggermente e si mise a tagliare le cipolle, a tritare l’aglio, il peperoncino e la mentuccia. Solo allora Sergio Citti si girò verso l’amico che stava guardando la scena per dirgli che lui il cetriolo non ce lo metteva, anche se era uso mettercelo. A lui piaceva così, semplice. Aggiunse che ormai la panzanella se la doveva fare lui, perché in giro non si trovava quasi più, che la gente non aveva più voglia di mangiare quello che mangiava quando moriva di fame, ma a lui la panzanella gli piaceva assai lo stesso e che avrebbe continuato a farla. [7]
Ovviamente a Roma la gente che si faceva la panzanella non moriva di fame: ma bisogna pensare al Pasolini corsaro e al suo uso indiscriminato e spesso geniale del materiale a sua disposizione per un chiaro progetto ideologico. Comunque qui c’è i pomodoro, che ormai è cibo “italiano” per eccellenza (almeno per gli americani), l’aglio e il peperoncino. Una variante interessante.
Mia suocera, che ha vissuto per un certo tempo a Ficulle, in provincia di Terni, mi segnala una panzanella fatta col pane bagnato nell’acqua dei fagioli e coi fagioli sopra. La panzanella coi fagioli? Blasfemia o lessico locale?
Nel Dizionario di pretesi francesismi e di pretese voci e forme erronee della lingua italiana composto da Prospero Viani (Firenze, Le Monnier, 1858), sotto la voce Panzanella c’è una nota un po’ spassosa che perlomeno dà un indizio, peraltro generico, di questa variante:
Panzanella: «Così dicono quella fettuccia di pane arrostito (corpo del mondo!, vedi subito ARRROSTIRE) con sopra olio, pepe, sale ecc. e che in buon toscano chiamasi cresentina o pan lavato (1).»
(1) Oh, viva, oh viva! L’amico mio toscano fa qui la bella nota seguente: «Vo’ dir la mia. Cresentina è voce che io conosco per averla letta, ma non adoperata né sentita adoperare. Ne domando qui attorno, e nessuno mi sa rispondere. Ma in fin de’ conti se pur vogliamo arrisicarci di attribuire un significato preciso, terrei che fosse una torta, o pasta fritta, insomma una vivanda ove per principale ingrediente entra la pasta, e non il pane. Prova n’è, forse, che due milanesi mi dicono: esser nel loro dialetto le voci carsenza, carsenzina, significanti quella schiacciata o focaccia che le massaie soglion fare a’ bambini di casa il dì che si cuoce il pane par la famiglia; i pasticcieri lombardi comporne di varie specie, e venderne sotto il nome generico di carsenza come a dire, la carsenza coll’uva, la carsenza di sfoglia ec.; di queste regalarsi gli amici a capo d’anno: meglio avvisati al certo che non i Romani antichi con que’ loro fichi secchi. Il pan lavato si condisce con olio, sale e aceto, ovvero con zucchero e aceto; talora aglio, pepe, basilico, cipolla ec.; e allora piglia anche il nome di panzanella; contuttoché questa più propriamente sia fatta di pane arrostito, gittandovi sopra brodo caldo di fagioli, ed anche fagioli interi: il pane è soffregato d’aglio e condito con olio, pepe, sale, cipolla ma non aceto. Ergo, le mi paiono a ogni modo tre cose distinte, e non tutt’una.»
E qui la cosa si fa complessa anche per l’amico toscano che comunque segnala una panzanella fatta col brodo dei fagioli. Se qualcuno di voi avesse altre notizie su questo tipo di panzanella, scrivetemi, per favore. Avrete la mia gratitudine.

Questa che abbiamo descritto finora è la panzanella dopo l’unità d’Italia. Ma prima? Prima, la panzanella non viene citata. D’altronde nei libri di famiglia dei nobili o nei ricettari pubblicati dai loro cuochi, che è la letteratura gastronomica di cui disponiamo a partire dal XIII secolo, la nostra panzanella non la si trova neanche con un altro nome. Chi pensa che si possano trovare attinenze col pan lavato, citato anche dal Boccaccio nella novella settima dell’ottava giornata del Decameron, credo che sia in errore. Il pan lavato, come ci conferma il settecentesco Vocabolario degli Accademici della Crusca, è pane, che affettato, e arrostito s’inzuppa nell’acqua, e condiscesi con aceto, zucchero e simili. Che tra l’altro, stando alle poche notizie dei secoli precedenti, avrebbe valenza medicinale:
Pan lavato, asperso d’acqua, e un po’ d’aceto, con zucchero; sicché nel medesimo tempo è una posca gentile, e uno oxysaccharon; cioè aceto-zucchero: dal quale si è tratta stranamente la voce suzzacchera. Usasi la state ne’ calidissimi giorni, per attutare la sete; e dessi per lo più agli infermi. [8]
E poi, quale dei cuochi della nobiltà italica o di Papi o Cardinali di Santa Romana Chiesa come Maestro Martino, Bartolomeo Scappi o Vincenzo Romoli avrebbe osato metter per iscritto una vivanda di pane e cipolla? In fondo la cipolla “offusca molto lo intellecto. Imperò non è pasto da doctori né da quelli che hanno adoperare molto lo studio. Imperò è pasto da lassare a homeni grossi e tamburlaci” come insegnava a Padova lo zio di Girolamo Savonarola, Michele, nel Quattrocento [9]. Un cibo da tamburlaci, insomma da villani.
Ma torniamo alla panzanella di oggi. Unico problema, per farla bene: il pane. Ci vuole necessariamente il pane toscano, ovvero quello sciàpo, senza sale aggiunto. Perché altrimenti il pane, invece di sbriciolarsi, diventa una pappa e non si “condisce” a dovere. Il risultato: una cosa buona per le galline. Il problema è che il pane toscano si fa solo in Toscana: quello che si trova in giro chiamato “toscano” spesso non ha nulla in comune con quello originale se non la farina, il lievito e il nome. E generalmente si spappa. Non lo dite a nessuno, ma io qui nel Nordest, se non ho gli avanzi secchi del pane che mi porto quando scendo al paesello natìo, lo faccio col bulgur. Viene benino. Ma per favore, non ditelo a nessuno…
[1] Giosuè Carducci, Ça ira, in: Confessioni e battaglie.
[2] Mario Pratesi, Un Vagabondo. «Nuova Antologia » II s., v. XXII, 1878.
[3] La provincia di Grosseto. Alcuni capitoli di una monografia agraria del cav. Dott. Alfonso Ademollo in: Atti della Giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, 1884.
[4] «La riforma medica », anno VIII, vol. IV p. 592 (1892)
[5] Vocabolario dell'uso toscano. Compilato da Pietro Fanfani, Firenze 1863
[6] Giuseppe Riguttini e Pietro Fanfani, Vocabolario italiano della lingua parlata. Firenze 1880
[7] cit. da Giovanni Battistuzzi, il Foglio 1 giugno 2024 https://www.ilfoglio.it/roma-capoccia/2024/06/01/news/panzanella-ppp-6593530/
[8] La fiera commedia di Michelangelo Buonarroti il Giovane colle annotazioni dell’Abate Anton Maria Salvini gentiluomo fiorentino. Firenze 1726.
[9] Libreto de lo Excellentissimo physico Maistro Michele Savonarola: de tutte le cose che se manzano communamente. Venezia 1515.
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