Viva la pappa!

col pomodoro

Nei primi decenni del secolo scorso, nella letteratura per ragazzi, tre opere occupavano i primi posti in Italia: Pinocchio di Carlo Collodi, Cuore di Edmondo De Amicis e Il giornalino di Gian Burrasca di Vamba, al secolo Luigi Bertelli, interessantissimo personaggio del giornalismo italiano.
Bertelli, di ideali laici e radicali, dopo le esperienze con il giornale Capitan Fracassa, fondò e collaborò con periodici satirici di ispirazione repubblicana, generalmente di vita effimera, anche se di notevole presa sociale, fino ad approdare a un progetto per una nuova letteratura dedicata ai ragazzi che superasse il moralismo conformista e qualunquistico che, a suo parere, soffocava i doveri e gli ideali della gioventù del suo tempo: Il Giornalino della Domenica, stampato a Firenze dall’editore Bemporad, che vide la luce nel 1906.
Il periodico visse fino al 1911 e, dal febbraio del 1907, Bertelli – con lo pseudonimo di Vamba – iniziò a pubblicare Il giornalino di Gian Burrasca, poi raccolto in volume dal Bemporad nel 1912.

Romanzo di formazione, dove le disavventure di Giannino Stoppani, incapace di capire e accettare le tradizionali norme di comportamento dei “grandi”, diventano anche l’occasione per una critica pungente al perbenismo della società borghese dell’epoca, portando avanti concetti pedagogici come la libertà del fanciullo e l’avversione alla coercizione educativa.
Il romanzo, come abbiamo detto, ebbe un grande successo ed alcuni suoi passi sono rimasti celebri, attraversando allegramente il Novecento, almeno fino ai suoi ultimi decenni. Come, ad esempio, il famoso brano dedicato alla pappa col pomodoro:

“Evviva, evviva!… Oggi a desinare si è finalmente cambiato minestra!… Abbiamo avuto una eccellente pappa col pomodoro alla quale le ventisei bocche dei convittori del collegio Pierpaoli han rivolto con ventisei sorrisi il più caldo e unanime saluto…”

Nella trasposizione televisiva del 1964, per la regia di Lina Wertmüller – con Rita Pavone nelle vesti di Giannino – Nino Rota e Luis Bacalov (tanto per dire come trattava i suoi telespettatori la RAI degli anni Sessanta) composero la sigla Viva la pappa col pomodoro, che ebbe immediatamente un grande successo. Tanto che, se del romanzo educativo di Vamba oggi non credo si vendano molte copie (ma è sorte comune anche per Cuore e Pinocchio), ancora in molti ricordano la “pappa col pomodoro”, minestra divenuta in qualche modo simbolo di libertà.
Che poi la pappa col pomodoro non abbia attecchito fuori dalla Toscana, questa è un’altra storia: sarà forse anche per la scarsa diffusione del pane toscano sciocco, ingrediente assolutamente necessario per la realizzazione della versione classica.

La pappa, in sostanza, è un piatto povero che serve anche a recuperare i minuzzoli di pane secco o raffermo, come nella panzanella. Piatto popolare, ma degno di essere ricordato nel Dizionario della Lingua Italiana di Niccolò Tommaseo (1867):

«Pappa è il più comune in Toscana: pane cotto nell’acqua, con un po’ d’olio, pepe e sale, o con pomodoro a uso di minestra; o sia cotta più adagio, e da fare giro giro una crosta: e questa suol darsi a’ bambini e ai vecchi. Quindi è voce di celia e di scherno per dare del bimbo o del vecchio barbogio (…)».

Certo, ricordato: ma destinato, almeno nell’Ottocento, alle classi più popolari. Non per nulla la pappa, al pomodoro o meno, non viene neppure menzionata nell’opera – peraltro enciclopedica – di Pellegrino Artusi.
Ad esempio, per Evelina Cattermole, alias Contessa Lara, spregiudicata poetessa e scrittrice di fine Ottocento proveniente da un ambiente alto-borghese, la pappa al pomodoro era evidentemente un cibo vile e disgustoso. Infatti, così ne parla nel suo romanzo per ragazzi Una famiglia di topi (1895):

«Il bambino, quando è sano, deve mangiar di tutto e così crescerà vegeto e robusto.
— Com’è Arturo, il figliolo del portinaio — esclamò Albert — che viso bianco e rosso ch’egli ha! L’altro giorno se ne stava nel suo casotto mangiando allegramente una pappa co’ pomodori che mi faceva rivoltar lo stomaco! — Che ti piace? Gli domandai.
— Eccóme! — mi rispose.
— O un bel risotto alla milanese non ti piacerebbe di più?
— Si figuri! Ma anche questa pappa, sa ella, l’ha il su’ merito; già l’ha fatta la mamma! — E come se quest’ultima considerazione avesse cresciuto pregio alla pappa, se la finì in un batter d’occhio.»

Sta di fatto che la pappa al pomodoro, nelle famiglie toscane di un tempo (e spesso ancora oggi), ha sempre rappresentato una minestra semplice e gustosa da preparare ogni tanto, al pari dell’acquacotta o della zuppa di verdura.
Confesso che a me, da bambino e da ragazzo, la pappa al pomodoro non è mai piaciuta: non perché fossi di gusti “altolocati”, ma perché preferivo innanzitutto la pastasciutta alle minestre e poi, tra le minestre (a parte ovviamente i tortellini in brodo, che venivano considerati una minestra speciale), prediligevo la stracciatella o al massimo l’acquacotta, che perlomeno aveva l’uovo in camicia sopra. Insomma, quando vedevo mia madre che cominciava a soffriggere uno spicchio d’aglio e tirava fuori il pane posato, mi sentivo morire.
Più in là negli anni ho imparato ad apprezzarla, un po’ per una questione di ricordi, un po’ perché è realmente buona, tanto che in dispensa tengo sempre qualche fetta di pane secco senza sale, in caso di bisogno.

La preparazione è semplice, anche se – come in tutti i piatti di tradizione familiare – le varianti nel metodo possono essere molte, a partire da come cuocere il pane dentro la minestra.
Personalmente, dopo averlo tagliato a dadi, lo lascio impregnare un poco nell’olio della pentola, dove ho rosolato un bello spicchio d’aglio. Poi aggiungo la salsa di pomodoro, fresca o conservata che sia, un po’ d’acqua bollente, un mezzo cucchiaio di conserva (eh sì: mi piace il colore un po’ bruno nei piatti col pomodoro) e aggiusto piano piano di sale. D’estate ci metto anche due foglie di basilico, mentre d’autunno mi piace aggiungere due rametti di nipitella, che poi tolgo prima di servire.
La pappa deve cuocere lentamente, senza attaccarsi, fino a diventare omogenea, con il pane ridotto in piccolissimi minuzzoli. In genere ci vogliono tre quarti d’ora. Però c’è chi prima insaporisce la salsa con l’aglio soffritto e poi ci aggiunge il pane secco, e c’è anche chi scotta leggermente le fette di pane nell’acqua bollente, come fossero lasagne (come faceva mia zia). Insomma, l’importante è che alla fine il pane sia ben cotto, per formare una minestra né troppo soda né troppo lenta. Alla fine si aggiunge del pepe nero macinato.
A quel punto si scodella: non richiede formaggio. Oddio, in barba ai puristi, specie d’inverno, una piccola cucchiaiata di parmigiano e un filo d’olio ogni tanto ce li aggiungo; però niente pecorino grattugiato, altrimenti si perde il gusto del pomodoro, che col pane cotto resta delicato e molto gradevole.

Buon appetito.

 

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