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The Age of Scientific Wellness
Che noia. Un'altra "riforma radicale" ...

Ho ricevuto, alcuni giorni fa, una recensione su un libro di Leroy Hood e Nathan Price — due figure di primo piano nel campo della biologia dei sistemi e della medicina computazionale — tramite una newsletter autorevole su economia e società a cui sono abbonato da tempo.
Il libro in questione è The Age of Scientific Wellness, dedicato agli sviluppi futuri del rapporto tra tecnica e medicina. Vi riporto alcuni stralci significativi della recensione:
“Nel libro The Age of Scientific Wellness gli autori propongono una riforma radicale del sistema sanitario, spostando il baricentro della medicina dalla cura delle malattie alla promozione e conservazione della salute.
L’impianto teorico dell’opera si basa su un’idea di salute non come stato binario (malato/sano), ma come traiettoria continua, articolata in tre fasi: benessere, transizione e malattia.
[…]
In conclusione, The Age of Scientific Wellness rappresenta un manifesto teorico e operativo per una nuova medicina fondata sulla previsione, la prevenzione e la personalizzazione.”
Fantastico. A parte il fatto che ho la netta impressione che la recensione sia stata scritta con l’aiuto dell’intelligenza artificiale (quel “in conclusione” fa tanto ChatGPT, e il linguaggio è corretto ma piuttosto povero, impersonale — il che magari non guasta, soprattutto se l’autore ha poca dimestichezza con la sintesi o va di fretta), le premesse e le conclusioni mi sembrano piuttosto ridicole.
In pratica, due scienziati propongono di potenziare il sistema sanità/paziente (inteso come utente, non necessariamente malato — anzi!) in direzione della prevenzione e della personalizzazione, basandosi su una scienza (medica?) fondata sull’analisi della complessità buttando dentro un virtuale calderone di Medea big data, omics, fenomeni cellulari ecc., per poi “personalizzare” tutto a livello individuale. Una medicina di precisione amplificata.
I due autori la chiamano “scientific wellness” e promettono eccezionali risultati futuribili: sradicare il cancro, l’Alzheimer, l’invecchiamento.
Magari però, sull’immortalità, c’è ancora qualcosa da mettere a punto. E magari una parola sulle epidemie, che continuano a essere il vero grande rischio globale, sarebbe stata utile. Ma questi, si sa, sono dettagli.
Faccio loro gli auguri, anche se rimango scettico. Ma io, in fondo, sono solo un medico. Non uno scienziato. Pare.
Che però questa scientific wellness venga presentata come una rivoluzione, perché “sposta il baricentro dalla cura alla conservazione della salute”…
Beh. A partire dai primissimi testi medici che conosciamo, tutta la riflessione ruota proprio intorno al concetto di salute e alla sua conservazione.
Già l’elaborazione ippocratica in ambito alessandrino (siamo nel III secolo a.C.) distingueva chiaramente una medicina curativa (chirurgia e farmacologia) da una preventiva (dieta) — riconoscendo proprio a quest’ultima uno statuto pienamente razionale e logico. E così è sempre stato: nel mondo romano, da Celso a Galeno; nei trattati medievali sulla conservatio sanitatis; negli accademici Consilia; nei testi di Fracastoro e poi dei cacciatori di microbi; in Claude Bernard e nei consorzi antitubercolari.
In Italia, già durante la peste del 1348 e nei suoi tragici ritorni, ci siamo inventati la sanità pubblica. Con Ramazzini, tra XVII e XVIII secolo, nasce la medicina del lavoro: il suo De morbis artificum è, in sostanza, un trattato sulla prevenzione.
Certo, oggi disponiamo di nuove conoscenze sulla biologia dei sistemi complessi, che possono aiutarci a spingere ancora più avanti questo sforzo che probabilmente accompagna l’Homo sapiens da quando ha capito che esistono la malattia e la morte.
Potremo curare malattie terribili che oggi sfuggono ai sistemi di risposta biologica, e potremo soprattutto prevenirle.
Ma attenzione: Sempre mantenendo una umanità di vita.
Se per stare “in salute” dovessimo essere fortemente limitati nella scelta del nostro stile di vita, o peggio controllati o rieducati in nome dell’efficienza della sanità pubblica, saremmo davvero sani?
Io questa domanda me la sono posta molto tempo fa e mi sono dato una risposta chiaramente negativa. Ovvero mai perdere la propria umanità (e la propria libertà) sotto un microscopio.
Questo, naturalmente, non significa assolutamente rifiutare o guardare con sospetto la medicina attuale o la sanità pubblica, che è anzi il baluardo di ogni società civile e libera.
Pensiamo allo sviluppo dell’industria farmaceutica, che ha portato alla produzione di farmaci e vaccini di efficacia impensabile ai tempi dello speziale. Pensiamo ai controlli sulla qualità degli alimenti, alle strategie per migliorare l’ambiente, e a tutto ciò che in questi decenni ha migliorato la nostra vita quotidiana.
Altro dovremo fare, e lo faremo. Ma sempre riconoscendo alla medicina — e al medico — quel ruolo insostituibile di ponte tra scienza e umanità, tra conoscenza e relazione quotidiana con una moltitudine antropologicamente varia di persone. Per aiutarle a mantenersi in salute, a ritrovare quella salute quando l’hanno perduta o a vivere degnamente anche quando non potranno più riaverla.
Certo, con l’aiuto di tutto ciò che macchine, biologia, ingegneria e scienze positive potranno offrire. Insomma: una “anthropological wellness”.
Il resto, sommessamente, suggerirei di vagliarlo con cura: perché il rumore di fondo è tanto, e la fuffa — tantissima.
Buona giornata.
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