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Storie di clima e affanni
Rileggendo un saggio di Bruce Campbell

Come avrete notato, mi sono preso una piccola pausa, insomma una vacanzina estiva da questa newsletter. Qualcuno potrà dire, un po’ malignamente, che ormai sono sempre in vacanza: ma questa sarebbe appunto una malignità, perché visto che non riesco a uscire di casa la mattina per andare ad osservare nei cantieri la gente che lavora, “continuo a fare cose”. Magari studio, o inseguo progetti. Tra cui una storia “aggiornata” della peste nel medioevo, un argomento su cui sto lavorando da tempo.
Ho terminato con un po’ di fatica un lungo saggio di Bruce Campbell, ormai quasi un classico anche se uscito soltanto nove anni fa, che analizza il rapporto fra clima ed epidemie. È di fatto l’ultima fatica di questo studioso inglese, che conobbi una decina d’anni fa durante un convegno internazionale a Prato sulle interferenze dei fenomeni naturali sulla storia economica preindustriale, assieme a Samuel Cohn jr., il “revisionista” della peste medievale. Devo dire che entrambi hanno contribuito a farmi rivedere diversi concetti “classici” sulle epidemie storiche. Va detto anche che Campbell è uno storico economico di impostazione marxiana e malthusiana, per cui alcune sue conclusioni sarebbero (e sono) ampiamente da discutere; inoltre, a mio avviso, egli usa un paradigma epidemiologico della peste che oggi, biologicamente parlando, non regge decisamente più. Ma questa è un’altra storia. Se comunque siete interessati ad avere un punto di vista diverso su società, cambiamenti climatici ed epidemie, questo è il libro che fa per voi: vi aiuterà almeno a ricollocare nella giusta luce certe teorie di scrittori “popolari” che affollano le librerie e di scienziati che continuano a predicare linee rette e meccanicistiche sull’impatto delle società attuali sul clima — previsioni che sarebbero vere solo se le linee fossero davvero rette. Non che il problema non ci sia e che non sia grave, però ci sono delle cose tipiche dei sistemi complessi che sono difficili da analizzare con sistemi, diciamo così, newtoniani, per cui forse dovemmo essere abbastanza cauti nelle conclusioni, pur non abbassando mai la guardia. Tanto per dire: è bastato un vulcano esploso in Islanda per avere alterato, temporaneamente ma sensibilmente, il clima per qualche anno, come ben ci ricordiamo. Nel giugno di quest’anno il Monte Lewotobi Laki-laki, situato sull'isola di Flores, è entrato in una violenta eruzione con una colonna di cenere altissima e che influirà certamente sul clima globale dei prossimi anni, e questo solo per quanto riguarda i vulcani. Poi c’è l’attività solare, i mutamenti dovuti alla contrapposizione di El Niño e La Niña e molte altre cose, fra cui probabilmente il battito delle ali di un gabbiano, come diceva Edward Lorenz.
Nel XIII secolo esplosero in sequenza tre vulcani, di cui almeno uno provocò la più grande eruzione degli ultimi due millenni. A ciò si aggiunsero anomalie dell’attività solare ed “altre cosette” incresciose per cui, a partire dalla metà del ‘200, fu tutto un susseguirsi di carestie, mortalità del bestiame ed epidemie umane, sempre più gravi. Nel ‘300 arrivarono anche alluvioni disastrose, come quella di Firenze del 1336, quando l’Arno allagò la città distruggendo i ponti e, scendendo verso il mare, inondò Pisa. Una spirale di fenomeni naturali che culminerà con la peste del 1348. Questi fenomeni non furono limitati all’Italia o all’Europa, ma interessarono tutto il mondo, eppure proprio allora l’Italia e l’Europa (ma anche la Cina) toccarono vette sociali e culturali straordinarie, per poi declinare, ma non troppo.
Mi sto provando ad immaginare un mercante veneziano che si fosse messo in cammino lungo la via della seta una o due generazioni dopo Marco Polo. È il 1344: dopo un viaggio di quasi due anni, il nostro personaggio arriva sulle rive del basso Fiume Giallo, nella regione più prospera della civiltà cinese. È lì da pochi giorni, stanco per un viaggio disagevole a causa di un clima che la popolazione locale definisce “impazzito”: piogge alternate a siccità inspiegabili, raccolti sempre più miseri. Incontra villaggi interni ormai abbandonati, terre secche e sterili, contadini dal volto terreo che chiedono per carità un po’ di cibo per non morire di fame. Il mercante rimane stupito: i racconti dei suoi colleghi che avevano affrontato lo stesso viaggio un decennio prima parlavano di prosperità, di risaie e campi di grano rigogliosi.
Poi la pioggia incessante, il Grande Fiume che si gonfia fino a rompere gli argini e travolgere le campagne. Un mare di fango, una catastrofe immane. Il mercante e i suoi soci fuggono all’inizio dell’alluvione, salvandosi per miracolo. Addio affari, addio a sete e spezie. Seguono mesi di rivolte popolari contro l’Imperatore, con carestia e fame ovunque. Il mercante decide di tornare in patria. Ma il viaggio di ritorno è ancora più disagevole: in Asia centrale ormai piove pochissimo, l’acqua scarseggia. L’anno successivo, però, piove ai margini del deserto dei Gobi: l’ultima parte del viaggio è più veloce, i caravanserragli sono di nuovo pieni di cibo, acqua e merci. Con loro, però, viaggia anche un assassino invisibile. Qualcuno muore di febbre maligna lungo la strada, tra un caravanserraglio e l’altro, ma in pochi ci fanno caso: in fondo nei viaggi si muore di tante cose: malattie, predoni, bestie selvatiche.
All’inizio del 1348, fortunatamente, il nostro mercante è di nuovo a Venezia, sfinito dall’esperienza. Racconta ai figli, ai parenti e ai soci in affari quanto è successo laggiù, le alluvioni, la siccità, la fame e le malattie. Poi improvvisamente la terra trema, in Friuli e nella Carniola. Si racconta che il castello di Villacco sia crollato e c’è chi dice che sia addirittura sceso giù dal monte. Il terremoto si ripete ancora, le scosse sono meno potenti ma la gente ha paura, anche a Venezia. Dal Friuli arrivano notizie confuse: verso la montagna sono rovinate a terra torri e mura e castelli, si dice. Poi tra aprile e maggio arriverà lei, la grande mortalità. Dai caravanserragli della via della seta, per strade di terra e di mare, per una serie di eventi talora casuali, la peste è arrivata anche a Venezia. In pochi giorni i cadaveri sono così tanti che non si possono smaltire se non riempiendo ogni spazio disponibile. Anche quello della laguna, mentre Venezia odora di putrefazione e la gente attonita aspetta rassegnata la morte. Il nostro mercante si accorgerà improvvisamente, verso il tramonto, di avere la febbre alta. Morirà nel giro di otto ore. Negli ultimi momenti di lucidità, raccomandandosi l’anima, si chiederà quale delitto abbia commesso l’umanità tutta per meritarsi tanta ira di Dio, questa fine del mondo. Perché lui da buon cristiano sa che se c’è una catastrofe del genere, la colpa è necessariamente dell’umanità peccatrice.
Oggi, in fondo, non siamo poi così diversi dal nostro mercante in punto di morte. Non mi riferisco a quei buontemponi britannici che hanno dichiarato che il Covid è stata la punizione di Dio per le leggi sull’omosessualità: badiale sciocchezza, perché nonostante che Dio ci sia andato giù piuttosto duro una volta, a Sodoma, forse più per motivi politici che morali, di fatto si è poi sostanzialmente disinteressato del fenomeno. No, io penso ad altro: al fatto che ogni qualvolta si verifica una piccola o grande catastrofe climatica o epidemica si scatena puntualmente una lunga teoria di divulgatori, giornalisti, politici e persino qualche curiosa ragazza che ci ammonisce che tutto questo non è altro che la punizione per le nostre malefatte verso il pianeta, sul quale viviamo ma rispetto al quale siamo solo dei pigionali, mica dei proprietari. Malefatte che ci porteranno, qualora non ci pentissimo e facessimo ammenda, dritti dritti all’Armageddon, all’estinzione della specie umana (che peraltro, a sentir loro, sarebbe la specie peggiore dei tre regni di Linneo).
Solo che la punizione non verrebbe più inflitta da Dio, ormai percepito dalla civiltà dei social come un Ente obsoleto, ma dalla Natura: una Dea anch’essa, in effetti, ma che sa di scientifico, di misurabile e deterministico: quindi più accettabile perché in qualche modo più politicamente corretta. A questa Dea offriamo sacrifici: simbolici, come i pisellini surgelati “sostenibili” o reali e più seri, come i tentativi di moratoria mondiale sulle emissioni di CO2. Sperando che la Dea si plachi.
Speriamo, piuttosto, che nel frattempo non scoppi un vulcano come nel 1883 o, ancora peggio come 70.000 anni fa, quando la nostra specie si ridusse a poco più di diecimila individui che, nell’Africa tropicale, resistettero all’improvvisa grande glaciazione causata dalla enorme eruzione vulcano dell’isola di Toba, la più grande del Quaternario. E così via.
Penitenziagite …
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