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Quando si dice il destino ...
Divagazioni sul Fato, sulla Scienza e sulla Sfiga.

L’altra mattina, mentre stavo rientrando verso casa, ho visto passare una ragazza con i capelli chiarissimi raccolti in una coda di cavallo e gli occhi protetti da grandi occhiali da sole. Ogni volta che incontro una persona albina mi tornano a mente molti ricordi, legati specialmente a quando ero un giovane laureato, a Siena, e iniziavo la mia incerta carriera di neuroradiologo. All’epoca la cattedra universitaria di Neurologia, tenuta dal Prof. Guazzi - una persona gentile di cui serbo uno splendido ricordo - era molto nota per gli studi di neuropatologia genetica: insomma ci focalizzavamo su quelle che oggi chiamiamo malattie genetiche rare. Tra cui una malattia estremamente infrequente, ovvero una forma di albinismo a pigmento minimo di cui era stata segnalata la presenza di un caso in un paese appenninico dell’Italia meridionale. Questi paesini erano caratterizzati, all’epoca, da una notevole endogamia, ovvero gli abitanti tendevano a sposarsi tra loro, selezionando malattie genetiche varie. Il caso in questione riguardava una bambina, che peraltro aveva un fratello più grande, sanissimo. La malattia di cui sto parlando è di tipo autosomico recessivo: per intenderci i due genitori devono essere portatori della malattia, che si manifesta in forma dominante nel 25% dei figli con il 50% dei figli portatori del gene alterato ma completamente liberi da malattia. I bambini omozigoti sono completamente senza pigmento cutaneo e, oltre ai gravi problemi legati al malfunzionamento della retina e quindi della visione, possono avere anche degli importanti problemi neurologici associati. Insomma, questa variante dell’albinismo, per fortuna rarissima, è un vero disastro.
Cos’ è il Fato, secondo voi? Insomma, quanti di voi credono davvero al destino? Oppure al fatto che esista una dea beffarda e mutevole - chiamatela Tyche, Fortuna o come vi pare - che sembra farsi beffe del nostro libero arbitrio, delle nostre credenze e speranze, manipolando, seppure in apparenza, il nostro futuro a suo piacimento? Un futuro già scritto, però.
L’idea del Fato prende forma quando l’uomo non subisce come le bestie, ma cerca di rendersi conto e non accetta il dono d’origine, il grande dono di non capire il nostro destino, scriveva Giorgio Santillana in un classico da rileggere ogni tanto (Fato antico e fato moderno, Adelphi 1985) dove si mostra come la nascita dell’idea del Fato avvenga nella remota antichità, probabilmente durante la rivoluzione neolitica, dove tra l’altro dovremmo collocare, a questo punto, la nascita del pensiero scientifico derivato dal pensiero cosmologico. In fondo anche Aristotele ne era consapevole, e tra l’altro ci ricorda che gli uomini originari ed antichissimi hanno colto queste cose nella forma del mito […] dicendo che questi corpi celesti sono divinità, e che la divinità circonda tutta quanta la natura (Metaf. 1074 b). Ma il cosmo ha immutabili leggi, quelle leggi fatte di cerchi e triangoli come diceva Galileo Galilei, per cui la natura e l’uomo sarebbero regolati da divinità che seguono però obbligatoriamente il dettato delle leggi matematiche. Questa delle leggi matematiche è da sempre una tentazione, per la scienza: sto parlando del determinismo (non sto qui a riparlarne, ma rimando a questo mio articoletto), quello che poi si volgarizza nella stupida frase “è scritto nel mio DNA”. Ma questo non è certamente un fenomeno recente.
Quando l'occidente medievale, nel XIII secolo, conobbe l'astrologia alessandrina attraverso il filtro ideologico degli astrologi arabi, la adottò entusiasticamente come un sistema predittivo basato sulla inalterabilità dei destini, compreso quello del mondo stesso. Il problema era solamente quello di saper leggere correttamente i segni. L’astrologo poteva divinare il momento migliore per dare battaglia o per iniziare una lucrosa operazione commerciale: se il destino era immutabile ed era contenuto nelle stelle, era solo una questione di semeiotica. Un determinismo che riuscì anche a contagiare la medicina, quella medicina che si basava su solide basi epistemologiche galeniche e ancor prima ippocratiche ma che adesso sognava un sistema diagnostico e terapeutico certo ed efficace basato su ciò “era scritto nelle stelle”. Non più polso e urinoscopia ma oroscopi sulla qualità della malattia e sul momento giusto per intervenire e su come intervenire. E non fu una moda passeggera: durò un paio di secoli, più o meno.
Il determinismo, nonostante l’apparenza, nega all’uomo il pensiero magico, quello che permette o ci fa credere di permettere di modificare la Natura attraverso sapienza e conoscenza, fino all’opera estrema della teurgia, ovvero dello scendere a patti o costringere un’Entità a fare il proprio volere. Tra l’altro il determinismo nega anche l’efficacia della preghiera, che in fondo è una teurgia “ammessa” perché non è legata al potere (del mago) ma alla speranza (del fedele). Il determinismo nega insomma l’umanità dell’uomo rituffandolo nel calderone della Natura e delle sue leggi. Per cui, per amor di salvezza, bisogna negare che esista un destino già scritto per ognuno di noi o per l’intera umanità.

Però certe volte viene davvero da dubitare che qualcosa sia davvero scritto nelle stelle.
Vi ricordate della canzone Samarcanda di Vecchioni, col suo tormentone del cavallo? Quella del soldato e della morte? Lui (ma lo negherà) lesse la storia con tutta probabilità da un racconto della Fallaci, che a sua volta l’aveva preso da alcuni esempi simili della letteratura americana (cambiando in Samarcanda la città di destinazione). In effetti però, il primo a riportare questo racconto e dargli una derivazione persiana è Borges, che lo attribuisce (ma credere ai riferimenti di Jorge Louis Borges è come credere alla propria immagine riflessa in un castello degli specchi) a Jean Cocteau:
Un giovane giardiniere persiano dice al suo principe: «Salvami! Stamattina ho incontrato la Morte. Mi ha fatto un gesto di minaccia. Vorrei essere per miracolo a Ispahan, stasera».
Il buon principe gli presta i suoi cavalli. Nel pomeriggio, il principe incontra la Morte e le chiede: «Perché stamattina hai fatto un gesto di minaccia al nostro giardiniere?».
«Non era un gesto di minaccia,» risponde la Morte «ma un gesto di sorpresa. Perché lo vedevo lontano da Ispahan stamattina e devo prenderlo a Ispahan stasera».
In effetti il tema è molto antico e si potrebbe far risalire alla tradizione talmudica babilonese. Ma sto divagando, come a solito. E qualcuno si sarà già chiesto che cosa c’entri l’albinismo col determinismo.
Torniamo al paesino calabro e al caso di albinismo raro. Erano gli anni ’70 e i test genetici non c’erano ancora, per cui fu consigliato al fratello della bambina, un bel ragazzo sano e intelligente, di non cercar moglie nei dintorni. Anzi, di andarla a cercare il più lontano possibile. E così fu: il ragazzo andò a lavorare in Scozia, fece una certa fortuna, si fidanzò con una giovane del luogo e se la sposò. Tra la Calabria e la Scozia c’è di mezzo il continente europeo, quindi i due fecero una figlio, anzi una figlia. Però la giovane sposa scozzese era nata in un villaggetto delle Highlands a forte endogamia…
Vi lascio immaginare quello che successe. A spanne e stando alle statistiche, quel tipo di albinismo capita circa una volta su un milione di nascite.
E poi si dice del Destino.
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