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Oggi serviremo petonciani
al posto dell'Intelligenza Artificiale

Oggi volevo parlarvi di Intelligenza Artificiale, visto che sabato scorso con la nostra Accademia di studi medievali abbiamo organizzato una interessante giornata di studio a tal proposito e volevo condividere con voi qualche riflessione. Inoltre l’altro giorno tutti i nerd hanno letto sui giornali online commenti preoccupatissimi su un inquietante articolo pubblicato su Cells, dove si sosterrebbe che l’intelligenza artificiale raggirerebbe volontariamente l'interlocutore. Io sono poco nerd e quindi quel "volontariamente" riferito ad una macchina mi fa un po' ridere, ma forse scrivere qualche commento, dopo averlo ben ruminato, ne varrebbe la pena.
Dicevo che volevo parlarvi di Intelligenza Artificiale ma non ne ho proprio voglia. Stavo pensando, in alternativa, a una cosa tipo "La bruschetta e l'intelligenza artificiale", un po' come quel divertente racconto di Achille Campanile "Gli asparagi e l'immortalità dell'anima". A parte che Achille Campanile non lo legge più nessuno perché l'umorismo è morto con la nascita del "diritto di satira”, secondo quanto stabilito dalla legge di Gresham, è nondimeno facilmente dimostrabile che io non sono Achille Campanile, neanche in sedicesimo.
Lasciamo quindi perdere l’Intelligenza Artificiale e parliamo di petonciani, ortaggio - simbolo della cucina mediterranea. Che poi, tra parentesi, non ho ancora capito a che cosa ci si riferisca con cucina mediterranea, se alla cucina marocchina o a quella dell’Italia meridionale, oppure a quella della triade olio, grano e vino che dal Neolitico in poi è diventata il simbolo, anche sacro, dell’alimentazione dei popoli mediterranei. Qualcuno per mediterranea intende italiana: non è esatto ma non staremo a sottilizzare: basterà ignorare le proteste del frico furlàn o della cassoeula lùmbard, che di “mediterraneo” non hanno granché pur essendo piatti di regioni indiscutibilmente italiane. Per inciso, trovo sempre interessante percorrere le avventure e le disavventure degli alimenti nella storia di una determinata società, visto che la cucina è un po’ come la lingua di un popolo che si adatta al periodo storico, prende parole in prestito da altre lingue, inventa neologismi interessanti pur sempre restando lingua “nazionale”. Come la cucina “di tradizione”, italiana in questo caso. Poi ci sono gli chef stellati o i cuochi delle corti barocche: ma loro hanno sempre inciso poco, sul lungo periodo, così come nell’italiano parlato ha inciso poco la parola tomatiche.
Petonciano? Se andate su un buon vocabolario scoprirete che il termine proviene dall’arabo bādingiān ed è il nome della melanzana. Ma voi lo sapevate di già perché quando avete letto "La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene" di Pellegrino Artusi vi eravate già domandati di cosa diavolo parlasse nelle ricette da 400 a 403, ovvero “petonciani fritti, in umido, in padella e in tortino”. Anche perché petonciano o petronciano è vocabolo oggi in disuso, anche in Toscana, dove era ben presente almeno tra XIX e XX secolo.
È interessante vedere quando questo ortaggio, "grosso più d’una comunal pera, e di color paonazzo", come sentenziano nel '600 gli Accademici della Crusca, ha abbandonato il nome preso in prestito dall'arabo ed è diventato "melanzana", e perché. Tra l’altro solo in Italia: se ci pensiamo bene, i nomi della melanzana quali ad esempio il catalano albergìnia (poi francese aubergine), il portoghese berenjela (e il castgliano berenjena) derivano tutti da al-bādinjan, mentre da noi il nome di quest’ortaggio diventa "melanzana" con tutte le sue brave varianti dialettali: mulignana in napoletano, mulinciana o mirinciana in alcuni dialetti siciliani, marangiana in alcuni dialetti pugliesi e così via. Apparentemente nulla a che vedere con al-bādinjan, anche se pare ormai accettata la sua genesi dal termine arabo a cui è stato aggiunto il prefisso “mela”: melangian poi melanzana. Cosa probabile, anche se tutti quelli che nel passato hanno parlato di questo problema hanno espresso un’opinione molto diversa. Ovvero che melanzana provenisse da mala insana, un po’ come dire mela pazza. Il che, tra l’altro, non le ha fatto certamente una buona pubblicità. Ma andiamo per ordine, perché la nostra melanzana può riservarci molte sorprese.
Intanto questo ortaggio viene introdotto in Europa meridionale dagli arabi. Cosa comune, visti gli stretti rapporti che da sempre uniscono le varie sponde del Mediterraneo, da est a ovest e da nord a sud. In Sicilia gli Arabi portano la coltivazione del grano duro, per esempio, per cui a Palermo inizia una tradizione di maestri pastai perlomeno dal XIII secolo, se non prima. Senza contare l’introduzione della coltivazione dell’albicocca, della canna da zucchero o del carrubo. La melanzana probabilmente compare in questo periodo, fra XII e XIII secolo e probabilmente già come ortaggio, cioè come pianta edibile e non come curiosità botanica, come era successo al pomodoro, che Cesalpino in pieno ‘500 confonde ancora con la nostra melanzana. Una pianta edibile, ma sospetta.
Bisogna tenere conto che ogni alimento di nuova introduzione viene guardato con forte riserva e che possono passare molti decenni prima che questo diventi comunemente accettato. Si pensi per esempio alla patata, importata dalle Americhe nei primi anni del XVI secolo ma che in Italia viene coltivata a scopo alimentare molto tardivamente: in Friuli, ad esempio, sono solo alcuni agronomi e proprietari terrieri "illuminati" che promuovono, agli inizi dell'800, la coltivazione della patata "scozzese" tentando di convincere i loro contadini della sua appetibilità e dei suoi vantaggi alimentari, visto che i buoni e rudi villici furlàn di quella cosa che cresce sottoterra non ne volevano neanche sentire parlare.
Anche se nel ‘500 ci sono fonti che ci assicurano che c’era gente golosa che si faceva scorpacciate di melanzane, come scriveva Costante Felici al naturalista Ulisse Aldovrandi:
“pur da molti si magna avidamente per lo più cotta nelle brage e gradelle, prima cavata e poi ripiena de sale et olio e pepe, et anco fritte nella padella fatte a pezzetti et infarinate et anchora cotte in guazetti como li fonghi”,
la melanzana non doveva essere un cibo così popolare come al giorno d’oggi. Ippolito Cavalcanti, che scrive nel 1837 “La cucina pratica in dialetto napoletano”, riporta una sola ricetta con le melanzane, le “milinzane farsite con brodo di pomidoro” e anche Pellegrino Artusi, cinquant’anni dopo, ne dà solo quattro ricette che, tra l’altro, sono quelle riportate dal Costante Felici, a parte il tortino che è in qualche modo l’antenato della parmigiana di melanzane. Ma il XX secolo è ormai alle soglie.
Credo che il problema della sua diffusione fosse d’altra natura, ovvero che alla melanzana venivano attribuite qualità dietetiche pessime.
I medici universitari della seconda metà del XIII secolo insegnavano ancora sui testi del corpus salernitano di oltre un secolo prima, però il nuovo corso aristotelico iniziato nelle facoltà delle Artes aveva fatto adottare per l’insegnamento medico il Liber Canonis Medicinae del medico arabo Ibn Sina, latinizzato come Avicenna . E nel Liber Canonis si faceva riferimento alla melanzana come cibo di poca sostanza e spesso, ossia di cattiva digestione. Inoltre, grazie anche alla traduzione di un’opera del medico arabo Ibn Butlan e alla sua diffusione nella traduzione latina nota come Tacuinum Sanitatis, corredato di miniature esemplificative e di didascalie, i medici adesso sapevano che la melanzana, calda al massimo grado e umida nel terzo, provocava umori e vapori melanconici che andavano a nuocere al cervello.
Da qui, forse per paronomasia, l’etimologia mai messa in discussione da medici e naturalisti, compreso Linneo, di mala insana.
Certo, la melanzana aveva anche proprietà afrodisiache: Prioritant Venerem quae mala insana vocantur, scriveva il medico Castor Durante alla fine del ‘500 e quindi poteva anche dare una mano ai debilitati, ma queste proprietà non dovevano essere considerate particolarmente “sane”, come invece venivano considerati i farmaci come il dissatirione, usato per lo stesso scopo. Se osserviamo infatti la relativa illustrazione del Tacuinum Sanitatis di Vienna, quello che avviene di fronte alla “spalliera” di melanzane non sembra tanto un atto amoroso quanto una vera e propria violenza.

Tacuinum Sanitatis, Bibl. Naz. Vienna - Melongiana
Ma torniamo ai medici, per terminare il nostro discorso.
Una delle prime attestazioni letterarie della melanzana, denominata "petronciano" è una novella contenuta in una raccolta della fine del XIII secolo, di autore ignoto ma probabilmente fiorentino. In questa novella troviamo uno dei più grandi medici universitari del tempo, il fiorentino Taddeo Alderotti che insegnava medicina a Bologna, mentre evidentemente stava commentando il passo del secondo fen del primo libro Canone di Avicenna sulle qualità dei cibi, facendo un esempio pratico ai suoi studenti riguardante la nostra mela insana. I risultato fu esilarante e la morale della novella potete ricavarla da voi:
Maestro Taddeo, leggendo a’ suoi scolari in medicina, trovò che, chi continuo mangiasse nove dì di petronciani, che diverebbe matto; e provavalo secondo fisica. Un suo scolaro, udendo quel capitolo, propuosesi di volerlo provare: prese a mangiare de’ petronciani, et in capo de’ nove dì venne dinanzi al maestro e disse: «Maestro, il cotale capitolo che leggeste non è vero, però ch’io l’hoe provato, e non sono matto»: e pure alzasi e mostrolli il culo. «Iscrivete» disse il maestro «che provato è; e facciasene nuova chiosa».
Buon appetito!
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