Nobiltà di sangue

... di maiale e d'arte norcina.

Ogni volta che scendo a Massa Marittima, il mio paese, passo dal mio macellaio di fiducia e mi compro un paio di fette di buristo. Poi vado dal fornaio a prendere il pane, torno a casa e mi apparecchio due belle fette di pane con questo stupendo insaccato. È il mio piccolo peccato di gola mattutino: pane sciocco — quello senza sale — che accompagna, discreto, un salume dalla consistenza abbastanza morbida (va gustato a temperatura ambiente), sapido e profumato di spezie dolci e forti. Un po’ pepato, dal gusto rotondo, leggermente grasso, con un fondo dolciastro.

Certo, deve essere fatto bene, altrimenti rischia di risultare stucchevole. Ma il mio macellaio è molto bravo a trovare l’equilibrio giusto tra cotenne, carne, spezie e sangue. Sì, perché il buristo è fondamentalmente una salsiccia di sangue, un sanguinaccio, insomma. In Toscana c’è ancora una certa tradizione di sanguinacci salati, come il biroldo della Lucchesia o il mallegato dell’area pisana e livornese. Il buristo però se ne distingue per un gusto forse più equilibrato e per una maggiore prevalenza di spezie dolci.

La sua area di produzione e consumo è sostanzialmente Siena e la sua provincia, oltre ai paesi della provincia di Grosseto settentrionale legati storicamente alla tradizione senese. È però un insaccato sempre più raro, perché ormai poco rispondente ai gusti (e alle ideologie) alimentari contemporanei, specialmente dei più giovani. Se pensiamo alla fine che hanno fatto i canditi — tra gli ultimi deliziosi artefatti dello speziale, ormai banditi dal “nuovo” panettone, violentato da creme e cioccolato — o alla decadenza del consumo del panforte senese, possiamo immaginare la difficoltà nel proporre oggi una salsiccia “di sangue”. Peraltro, i canditi possono ancora essere “spacciati” per vegan, il marchio indispensabile della nuova industria alimentare sostenibile (e un po’ truffaldina). Il buristo, ovviamente, no. Anzi.

Ma cos’è il buristo, a parte essere una cosa buona? Ce lo facciamo dire dal solito Fanfani, che nel suo Vocabolario del 1882 riporta:

«I contadini dicono anco Buristio. È certa Pasta fatta di sangue di majale, con grasselli, uve asciutte e pinocchi, condita con sale e spazie, la quale, insaccata ne’ budelli, s’allessa, poi freddata, s’affetta e si mangia. Si chiama Buristo soltanto se il recipiente è budello di bove; Buristo in costola, se il recipiente è l’intestino gracile del majale; Buristo in cuffia, se lo stomaco del majale.» (Gradi). La credo sia voce e cosa molto comune a Siena, ma nota, sebben non comune, nel resto della Toscana.

Sulla “cuffia” è più preciso il Rigutini (Giunte e osservazioni al Vocabolario dell’uso toscano, 1864):

«Dicono a Siena il buristo, fatto con lo stomaco del maiale, il quale, riempito che sia, ha forma di una cuffia. È la qualità più pregevole del buristo.»

Insomma, il buristo rimanda a Siena, che può essere considerata la sua patria, come ricorda anche il Piccini in un’ode scherzosa per l’amico Francesco Tonti, “artista drammatico”, in occasione di una sua esibizione al Teatro dei Rozzi in Siena (1857):

In segno di amistà calzante io trovo
Augurarti ogni ben dal buon Fattore
Per l’Anno nuovo.
La città dei Panforti e del Burischio
Ti sia cortese, e nell’udirti ai ROZZI
Non usi il fischio.

Il buristo (o burischio) dall’epoca di Fanfani ad oggi ha perso i pinoli e l’uvetta, mentre i grasselli — integrati con qualche cotenna scelta, ben lessata, e un po’ di carne delle guance e del collo tagliata “a punta di coltello” — sono rimasti. Come è rimasta la “cuffia”, che però è diventata molto rara, anche a Siena.

Ma perché buristo? L’ipotesi ormai più accreditata è quella che fa derivare il nome del nostro insaccato dal germanico blutwurst, ovvero “salsiccia di sangue”, “sanguinaccio”, ancora molto usato e apprezzato specie nella Germania del Nord: ne ho assaggiati di ottimi in quel di Dortmund e devo dire che sono molto simili al nostro buristo, anche come consistenza e rapporto fra carne / grasso e sangue. D’accordo: ma che ci fa una salsiccia “todesca” a Siena?

Qualche autore senese ha ipotizzato che la responsabilità sia di Violante di Baviera: la principessa di Wienesbach fu Governatrice della Città e Stato di Siena dal 1717 e la prima attestazione del lemma buristo si trova nel Le Maître italien di Veneroni (1731), dove boudin è tradotto come sanguinaccio, buristo.

Il problema è che l’ingresso di Violante nella corte fiorentina dopo il matrimonio con Ferdinando de’ Medici avvenne in un sostanziale isolamento: non poté portare con sé il personale bavarese, se non una schiava turca e una fanciulla da camera tedesca. Anche quando fu governatrice, non introdusse costumi tedeschi a Siena, e preferiva di gran lunga Roma o Firenze. Certo, è possibile che qualche cuoco locale le abbia preparato un blutwurst in suo onore (in fondo, quasi due secoli dopo, Galgano Parenti, speziale, creò il Panforte Margherita per la regina Margherita di Savoia), ma è un’ipotesi poco probabile quanto indimostrabile.

Tuttavia, in Siena e nello Stato Senese, specie verso le Colline Metallifere, i tedeschi c’erano eccome e anche ben prima di Violante — spesso come esperti nella lavorazione del minerale argentifero, per esempio. A Siena inoltre erano presenti, perlomeno nella prima età moderna, anche molti studenti universitari di origine tedesca, senza contare una certa predilezione locale (e pare anche regionale) per le meretrici d’area “tedesca”, magari provenienti da Trieste o dal Trentino (ma forse questa èancora un’altra storia).

Insomma, ho l’impressione che la questione debba rimanere aperta, almeno fino a nuove evidenze storiche o linguistiche.

Ce ne faremo una ragione, consolandoci con due belle fette del nostro splendido insaccato — magari saltate un attimo in padella per sciogliere e amalgamare bene il grasso, o sbriciolate su un fondo di cipolla per farne un ottimo risotto. In ogni caso, secondo il mio modesto parere da inesperto, sempre da accompagnare con un onesto calice di Sangiovese, declinato in uno dei tanti splendidi vini della Toscana centro-meridionale.

Una delizia che non sa chi non la prova.

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