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Musica medievale d’altri tempi
Ricordi e filologia

Erano gli anni ’70 e noi frequentavamo (con profitto, tra l'altro) l’Università, ognuno coi propri sogni da realizzare. Con una passione insopprimibile: quella della musica. Quella fatta e vissuta. Eravamo clerices vagantes per status e vocazione, alieni da stupefacenti ideologici e farmacologici, pieni di vita e di contraddizioni, oltreché di ormoni d’ogni genere, com’era giusto che fosse. Per noi la musica era il pane degli angeli, non il pane quotidiano, e poi eravamo, diciamocela tutta, in provincia. Anche se Siena, dove studiavamo, all’epoca viveva una straordinaria stagione culturale, sostenuta da un Monte dei Paschi che ancora non si era fatto rovinare dagli obblighi politici e da qualche grande famiglia imprenditoriale.
Un periodo musicale straordinario, d’inverno e d’estate. Concerti di interpreti strepitosi, teatro musicale, grandi orchestre. Il venerdì sera, uscito dal concerto, spendevo al bar, con gli amici, gli ultimi spiccioli: quelli per l’autobus. Un rito a cui nessuno di noi avrebbe rinunciato: niente di costoso, ovviamente. D’inverno una china o un rabarbaro caldo. La mattina dopo, senza una lira in tasca, tornavo a casa in autostop. Una volta sono rimasto oltre un’ora sotto la neve, nel mezzo di una valle delle Colline Metallifere, prima di trovare un buon samaritano che mi portasse a casa. Altri tempi.
Poi la scoperta dell’altra musica, quella scritta fitta sulla pergamena, così diversa e nuova rispetto alla neue musik, quella che faceva Karlheinz Stockhausen mentre, presentatosi sul palco vestito come un conte transilvano, svuotava al terzo brano un Teatro Comunale di Firenze abbastanza gremito. Ricordo che a quel tempo comprai la partitura di Rara di Sylvano Bussotti per mimo e flauto dolce e, dopo aver tentato di decifrarla, le feci attorno una cornicetta per appenderla al muro perché era un bell’oggetto grafico.
Probabilmente eravamo degli snob, ma non ce ne rendevamo conto: nonostante l’eccellenza degli interpreti ci annoiava Brahms come ci annoiavano i concerti di pianoforte che ci offriva con dovizia la stagione musicale senese. Rimanemmo invece fulminati, manco fossimo sulla strada di Damasco, da un concerto di David Munrow che suonava il cromorno e il ciaramello con l’Early Music Consort of London . Quell’anno (o l’anno dopo?) racimolai i miei magri risparmi e partii in treno per l’Inghilterra, in cerca di avventure musicali.
Erano quelli i tempi della partecipazione o forse eravamo noi che avevamo vent’anni, o forse ambedue le cose. Il primo concerto lo facemmo nel 1975 con un programma di musiche che andavano dal X al XVI secolo, con la disinvoltura dei neofiti e con un nome programmatico: Ensemble senese di musica antica, insomma Early music consort of Siena. Che poi, pochi anni dopo, diventò l’Ars Mensurabilis. Noi facevamo “musica antica”, termine che voleva dire tutto e nulla e poi, all’epoca, si usava così. Non che in Italia fossimo molti: anzi, più o meno ci si contava sulle dita, a parte i suonatori di flauto dritto, che stavano spuntando come funghi un po’ dappertutto grazie alla disponibilità di strumenti a basso costo e ad una nuova didattica musicale nelle scuole.

Eravamo clerices, quindi avevamo per natura un approccio contemporaneamente archeologico e scientifico, oltre che musicale. Ci confrontavamo non solo con gli storici (l’amicizia con Agostino Ziino, che all’epoca insegnava storia della musica medievale a Lettere e si autoinfliggeva l’ascolto delle nostre prove) ma anche con l’arte medievale, fotografando e ridisegnando strumenti musicali da miniature e angeli musicanti per farci costruire quegli strumenti e per provare a suonarli. Cercando nel contempo di venire a capo di problemi fatti di di scale diatoniche e di mani guidoniane, di prolationes e forme di poesia per musica. Poi alla fine il risultato era quello che era, a pensarci cinquant’anni dopo, ma in fondo non era proprio malaccio. Tra l’altro, ci siamo anche laureati tutti senza neanche andare fuori corso. Con lode. E tutti in materie scientifiche.
Qualcuno di noi ha continuato a fare musica, quasi come secondo lavoro, mentre qualcun altro non ne ha avuto la possibilità o la voglia. Ma ognuno di noi credo che veda ancora quel periodo come un’esperienza importante della propria formazione umana e intellettuale.
Abbiamo dato qualcosa per contribuire alla conoscenza della musica del passato? Non lo so, francamente. Però abbiamo tentato di adottare una metodologia per ricreare, magari male e comunque incompletamente, una prassi esecutiva filologica. O magari l’abbiamo solo sognata. Però eravamo certi che quella fosse la strada.
Poi sono arrivate le “rievocazioni storiche”, il celtismo d’accatto, i barbari del “tanto è la stessa cosa” o i volponi della “contaminazione”. E hanno vinto loro. Fine della storia: adesso se devo andare a sentire a un concerto di musica medievale ho attacchi di panico due giorni prima. E generalmente resto a casa.
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