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L'organo
Racconto fantastico

Il ragazzo camminava svelto stringendo in tasca la grossa chiave della porta della sagrestia. Faceva caldo, anche se l’afa della giornata estiva stava cominciando a stemperarsi, dopo il tramonto. Passò davanti all’osteria all’angolo della piazza dove tre o quattro avventori erano lì seduti aspettando il fresco con un bicchiere di vino appoggiato al tavolo. C’era poca gente in giro: molti stavano ancora cenando e poi l’indomani si lavorava.
Il ragazzo arrivò davanti alla cancellata della chiesa, che da anni veniva tenuta sempre aperta. Le luci elettriche dei lampioni proiettavano ombre geometriche sul sagrato. Il ragazzo girò intorno all’edificio fino ad arrivare ad una porticina. Tirò fuori la chiave dalla tasca, aprì la porta ed entrò con una certa trepidazione. La sagrestia profumava di incenso e di legno vecchio mentre un chiarore fioco, che proveniva dall’alto di una finestra rotonda, bastava per muoversi con sicurezza nella grande stanza ingombra di mobili ed oggetti.
Era l’ultima volta, per il ragazzo: un po’ come l’ultimo desiderio. L'indomani sarebbe partito, mandato a lavorare lontano dallo zio mobiliere. Fine del sogno, fine della musica. Scrollò leggermente le spalle come per dire “perlomeno ci ho provato”, ma mentre faceva quel gesto sentiva gli occhi gonfi di pianto.
Erano quattro anni che studiava, di nascosto, con il vecchio organista ormai praticamente cieco. Lezioni gratis ed esercizi sul piccolo organo della Confraternita della Misericordia, che era vecchio e un po’ scordato ma che aveva un nuovo motore elettrico per soffiare nel mantice. Tutto in segreto, perché a casa sua non ne volevano sapere della musica. Generazioni di braccia da lavoro. Non ne volevano sapere neanche della chiesa, tra l’altro. Il ragazzo lavorava da tempo, dopo aver compiuto la terza elementare, da uno stagnino, per portare qualche soldo a casa. Il suo padrone era veramente un brav’uomo. Aveva perso l’unico figlio maschio cinque anni prima, morto sul Carso combattendo contro gli austriaci, e aveva preso a benvolere quel ragazzino intelligente e veloce ad imparare. Un giorno passò dalla bottega un vecchio prete, con la tonaca un po’ consunta e un cappello tondo che aveva certamente visto epoche migliori. Aveva gli occhi quasi bianchi e si appoggiava a un bastone. Lo stagnino lo servì con grande rispetto e quando se ne fu andato disse al ragazzo che quello non era un semplice prete ma anche bravo un musicista e che tra l’altro era l’organista della chiesa principale. Il ragazzo non aveva ben capito di cosa stesse parlando il suo padrone, ma annuì. Fu alcuni giorni dopo che lo stagnino lo portò ad ascoltare il vecchio prete mentre stava provando al grande organo. Il ragazzo rimase come fulminato.
Nella sagrestia il ragazzo stava aprendo la porticina per salire in cantoria. Ultima sera di musica, soltanto lui e la maestosità di quello strumento.
Quella domenica aveva suonato per la prima volta in pubblico, al posto (e con la benedizione) del suo insegnante, a cui la cecità e i numerosi acciacchi rendevano moto difficile soddisfare gli obblighi liturgici. In pubblico ma senza farsi vedere, celato dalla grata della cantoria, soprattutto per non avere guai con sua madre. Ma purtroppo non era servito a nulla. Qualcuno, insospettito da quella musica suonata da mani diverse da quelle del vecchio organista, si era fatto prendere dalla curiosità ed aveva aspettato che il ragazzo scendesse, a messa finita. E sua madre l’aveva subito saputo dalla vicina, che non vedeva l’ora di dare un po’ di fastidio a quella donna sgradevole. L’aveva picchiato con il bastone, sua madre. E poi quando era tornato il padre a casa, aizzato dalla moglie, aveva anche preso una bella dose di cinghiate. Poi la decisione. Sarebbe andato nel paese dello zio a fare mobili. Così gli sarebbero passati quei grilli che aveva in testa. Generazioni di braccia da lavoro.
Il ragazzo salì la scala di legno fino al piano del mantice e tirò giù la leva che dava la corrente al motore elettrico. Con un lieve rombo il motore partì e il mantice principale cominciò ad alzarsi. Aprì la porticina che portava alla cantoria e all’organo, girò l’interruttore di porcellana bianca per avere luce sopra il leggio e si sedette sulla panca davanti alle due tastiere. Adesso era felice, anche se stava piangendo.
Sul bancone c’erano un paio di libri per organo e partiture sparse. Sul leggio sopra le tastiere era poggiato un quaderno oblungo, vergato a mano, che il ragazzo non aveva mai visto. Era aperto su una pagina che recava il titolo “Postludio in forma di Toccata”. Sembrava semplice: inserì alcuni registri leggeri e provò un accordo. La musica si sparse nella chiesa, buia e silenziosa. Il ragazzo ebbe un leggero brivido. Si voltò a scrutare il buio e riuscì a scorgere, dalla poca luce che entrava dal rosone sopra il portale, il grande altare, le colonne e gli archi di quella vecchia grande chiesa. Il resto era indistinto. Si voltò verso la partitura e si mise a suonare. Era strano come gli riuscisse facile eseguire quella musica che si faceva piano piano sempre più complessa. Le mani scorrevano sulla tastiera del grande organo mentre i piedi sembravano conoscere quella pedaliera da sempre. Via via la musica si fece sempre più brillante e l’organo sembrava che cambiasse da solo i registri, sempre più chiari e squillanti. No, era lui che li inseriva, si disse, trasportato da quella musica mai udita. Le mani ormai volavano sui tasti, inanellando contrappunti e giochi di eco, sostenuti dai bassi del pedale. Ormai erano inseriti i registri di ripieno e le ance e il grande organo cantava con tutta la sua voce possente, mentre il ragazzo ascoltava mentre le sue mani e le sue gambe e i suoi piedi sembravano che obbedissero ad un corpo che non era più il suo. Lo strumento, dalla sua cassa dorata, stava lanciando nella chiesa vuota cascate di suoni, gioiosi e possenti. Una musica inusitata e strana, che sollevava la mente verso un cielo brillante e lontano. Fu allora che successe una cosa strana. Il ragazzo ebbe la sensazione di essere in piedi dietro alla panca e di stare ad osservare se stesso suonare quella musica meravigliosa. Si voltò e si sporse leggermente dalla cantoria. Adesso una specie di nebbia bianca si agitava sul pavimento e copriva le panche, le lapidi e i monumenti. Guardò meglio e vide che la nebbia era fatta di corpi e di volti diafani e luminosi che cantavano su quella musica magnifica, con voci sottili e fascinose. Non ebbe paura, anzi pensò che quella doveva essere davvero la musica celeste. I volti, nel biancore movimentato dai corpi e dalle vesti candide erano sereni come il loro canto. Pensò per un attimo che quella era l’ultima sera, per lui e per la sua musica e per un attimo gli venne da piangere, ma fu solo un attimo. Poi le voci lo chiamarono. E tutto fu luce.

Il Prefetto era arrivato più presto che aveva potuto e stava presiedendo, un po’ di malavoglia, una riunione urgente e riservata nella stanza del sindaco del paese. Con il parroco e il maresciallo di Carabinieri, uomo di provata lealtà verso la Nazione che si era meritato un paio di medaglie tra Caporetto e il Piave, qualche anno prima. Insomma un sopravvissuto che aveva vissuto tutti gli orrori delle trincee, dei gas e dei reticolati. Era lui che aveva prontamente avvertito, ovviamente per via gerarchica, l’autorità prefettizia. Il maresciallo, in piedi, informò il Prefetto senza tralasciare alcun particolare di quello che era successo la notte precedente, cercando di essere il più oggettivo possibile, mentre il sindaco e il parroco sembravano seduti su una graticola.
“Eccellenza” cominciò il parroco timidamente quando il maresciallo ebbe terminata la sua relazione, “io sono un testimone oculare. Oculare, capisce?”. Il parroco si stava rapidamente infervorando. “E non riesco a trovare altra spiegazione che un intervento soprannaturale.” Gli si ruppe la voce per un attimo. “Un atto diabolico. In chiesa! Capisce Eccellenza, in chiesa! Ma non posso essere io a dirlo: devo subito avvertire monsignore il Vescovo…”
“Non possiamo accettare questa teoria clericale!” sbottò il sindaco da sotto i baffoni da socialista. “Qui il diavolo o la croce non c’entrano proprio nulla! Siamo nel secolo della scienza positiva, perbacco, e quindi non crediamo alle superstizioni inculcate al popolo dai preti! Chiederemo che venga interpellato un professore della Regia Università, magari due…”
Il maresciallo alzò gli occhi al cielo mentre intanto osservava la faccia del Prefetto, sempre più preoccupato dalla piega che stava prendendo la discussione. “Signor sindaco”, si permise, “qui il problema non è la scienza o la religione, se posso dire la mia. Qui c'è un problema immediato di pubblica sicurezza. Se per caso si viene a sapere che in chiesa, di notte, suonando l’organo, un ragazzo è morto e si è disseccato in due balletti per qualche misterioso motivo, la gente comincerà a spaventarsi e a dirlo in giro. Immaginatevi l’inchiesta giudiziaria, i giornali, i curiosi… Già è un problema tenere a freno la madre che, in barba al divieto e grazie al signor parroco…”
“Che ci potevo fare, maresciallo? A parte la carità cristiana, quella sgradevole donna è arrivata come una furia in canonica …”
“Carità cristiana un paio di corbelli, don Cilenti” sibilò il sindaco “a lei fa comodo un bel miracolo, anche se, ammetto, un po’ all’incontrario, per turlupinare i suoi fedeli …”
“Signori, per favore! Per favore!” tentò il prefetto alzandosi in piedi “siamo qui per trovare una soluzione. Il maresciallo mi ha detto che quella povera donna è andata completamente fuori di testa, e ci posso credere, per cui intanto si potrebbe mandare con discrezione al manicomio: parlerò io col direttore che la metta in una stanza isolata, in attesa del da farsi”
“Si, ma c’è gente che ha sentito la musica uscire dalla chiesa a mezzanotte come se dentro non ci fosse un solo organo ma dieci che suonassero tutti assieme!” provò a replicare il maresciallo.
“Diremo che c’è stato un guasto, che qualcuno s’è messo a fare uno scherzo, insomma per ora cerchiamo di mantenere la calma in paese. Dobbiamo decidere che cosa fare. E anche alla svelta” gli rispose il prefetto.
In quel momento arrivò un dispaccio telegrafico da Roma, portato da un funzionario trafelato. Il Prefetto lo lesse e tirò un respiro di sollievo.
“Negate tutto e buonanotte. Fate come vi pare, mettete i testimoni in manicomio, fucilateli o pagateli per il silenzio. Vedete un po’voi. Io in questo momento ho altro da fare. L’Onorevole Benito Mussolini sta marciando su Roma, o almeno così mi comunicano dal Ministero, e Sua Maestà il Re e quell’uomo senza palle di Facta non si trovano. Altro che trucchi o soprannaturale, signori. Prepariamoci, dicono, a reprimere eventuali insurrezioni. Adesso, permettetemi un altro detto plebeo, sono cazzi. Sarà pure una carnevalata come dicono in molti, questa marcetta, ma secondo me non promette nulla di buono. Quindi non mi sembra davvero il caso che mi metta a questionare coi preti, coi massoni, coi socialisti o coi professori della Regia Università. E spegnete il lume quando andate via”. E se ne andò a passo lesto masticando un rosario di impropèri.
Quel corpo disseccato che avevano trovato seduto sulla panca dell’organo con ancora le mani sulla tastiera e con davanti uno spartito in bianco, con le orbite vuote coperte dalle palpebre secche, aveva le labbra morbide. Non aveva il ghigno della morte: sorrideva. Al maresciallo, che aveva visto e vissuto gli orrori della guerra, rimase impresso indelebilmente nella memoria quel sorriso. Un sorriso placido, quasi angelico. Lo raccontò solo una volta, molti anni dopo, che ormai era vecchio e spesso si perdeva nei ricordi e si scordava dei divieti di quarant’anni prima. I nipoti però pensarono che il vecchio nonno avesse voluto raccontare una favola per impaurirli. E sorrisero, ammiccando tra loro.
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