La riforma copernicana

Ricordi di captatio malevolentiae

Il fatto è che io quando sono irritato (e succede, purtroppo succede) sono un vero maestro nella captatio malevolentiae, cosa della cui maestria non posso certo esibire certificati o lauree, ma della quale verifico spesso un innato talento, insomma una naturale propensione. È un gesto spontaneo, sincero dell’anima - forse un po’ meccanico - come se all’aumento della pressione si attivasse un meccanismo di scarico, come succede per la piccola valvola di sicurezza della moka: non la pulite da tempo, avete pressato troppo la polvere di caffè, ed ecco che invece di saltare in aria come lo stadio di un missile interplanetario, la moka emette un fischio minaccioso dalla pancia, segnale sonoro inequivocabile che vi dà tempo di spengere il fornello o la piastra a induzione e di salvare così l’incolumità della vostra cucina. Certo, quello della captatio malevolentiae è un atteggiamento che nella pratica della vita può risultare piuttosto autolesivo, ma è sempre meglio dell’invettiva violenta e plebea o dell’omicidio d’impeto: è meno brutale e il risultato – almeno per quanto riguarda la pressione della vostra anima – è più o meno lo stesso. Ma senza atti incivili o orribili spargimenti di sangue.

Credo che fosse un giorno qualsiasi del ’93 ed ero da qualche anno aiuto ospedaliero, un ruolo che all’epoca aveva una qualche importanza e che mi ero guadagnato attraverso un concorso pubblico per nulla semplice. Un ruolo che un giorno scomparve, nei laboriosi processi di aziendalizzazione, sindacalizzazione e burocratizzazione della salute del cittadino, sostituito con nulla. Ma questa è un’altra storia. Il vantaggio del ruolo di aiuto era quello di essere a un passo dal primariato. Bastava soltanto fare un complesso esame nazionale di idoneità e poi un concorso pubblico, al bisogno: d’altronde lo Stato voleva sincerarsi che un medico preposto a dirigere un reparto, ovvero la salute dei suoi cittadini, ne fosse all’altezza. Mediamente all’altezza, diciamo. Dopo le varie riforme, oggi il “dirigente” viene scelto dal Direttore Generale, generalmente un burocrate legato al potere politico (il che non vuol dire che sia un cane, per carità, ma magari la volta prima si occupava di un’azienda per la nickelazione di sassofoni e non tutti hanno la flessibilità di un giunco) e soprattutto non comanda più granché. Per fortuna! - qualcuno potrebbe sussurrare conoscendo alcune situazioni: ma questa è ancora un’altra storia. Comunque il mio primario era andato in pensione ed io ero diventato “primario f.f.”, ovvero “facente funzioni”. Stipendio immutato, responsabilità ovviamente triplicata, rotture di scatole ve le lascio immaginare. Però era una buona posizione e dava punteggio. A casa dopo poche settimane non ne potevano più di me, perché sono un po’ perfezionista e quindi tornavo quasi sempre imbufalito: d’altronde nessuno mi aveva insegnato l’arte vitellona di lasciar perdere e campare senza stress come un bove nel campo che rumina e ingrassa e guarda interrogativamente il treno che passa. È quella un’arte di cui non ho gran talento naturale, ahimè.

Insomma vengo invitato, come primario [f.f.] ad una riunione con il Direttore Sanitario e un alto prelato ministeriale della Sanità, venuto da Roma per l’occasione. Un uomo snello di mezz’età, piuttosto calvo e con due baffetti abbastanza ordinari su una faccia ordinaria. Benvestito, però, di un completo di colore grigio chiaro con una sfumatura di verde e cravatta intonata. A lato il Direttore Sanitario, che poi era una Direttrice, una ragazzotta di prima nomina, niente di che, verosimilmente d’area friulana, molto presa dal suo ruolo e soprattutto adorante il ministeriale, alla sua sinistra. La ragazzotta invero durò poco, sia perché non era granché, sia probabilmente per declino politico del suo pigmalione, per cui di lei si persero le tracce più o meno un anno dopo. Non mi ricordo neanche come si chiamasse.

La riunione verteva sui decreti di riordino del Sistema Sanitario Nazionale e soprattutto sulla aziendalizzazione delle USL e degli Enti Ospedalieri. Il ministeriale, con espressione e voce ispirata, parlò di questa “rivoluzione copernicana” – parole sue – della sanità pubblica, di queste aziende fatte di Direttori attenti alla produzione, ed il suo melodioso eloquio voleva essere degno di una di quelle sirene dell’isoletta tra Scilla e Cariddi, rivolto a un pubblico di primari che lo ascoltavano con volti abbastanza inespressivi. La giovin direttrice poi si esibì in un panegirico volto a sottolineare la bontà delle parole e dei concetti testé espressi dal messo romano e alla fine, con espressione leggermente contrariata, fu costretta per educazione o semplicemente per consuetudine a chiedere se ci fosse qualcuno dei presenti che volesse dire qualcosa.

Io ero lì che bollivo già dopo il primo quarto d’ora. Era da tempo che mi ero messo a studiare la storia della medicina e mi stavo occupando del ruolo del medico nella città mercantile medievale, per cui trovavo una fondamentale incongruenza tra la salute, il medico e la produzione aziendale. Almeno così come ce l’avevano spiegata i due esperti. Per cui mi alzai e, semplicemente, posi questa domanda: “Ma se avessero ragione - come d’altronde hanno - Ippocrate e Galeno filtrati attraverso il pensiero medievale e moderno, che la salute è lo stato naturale dell’uomo, che cosa può produrre una azienda sanitaria, se non malattia e morte?” Era ovviamente una domanda un po’ sofistica, l’ammetto, però ci stava. Il volto del messo ministeriale iniziò impercettibilmente a liquefarsi, mentre la direttrice, che pur non avendo capito la domanda l’aveva interpretata come una critica feroce a lei medesima, era diventata di colpo di un brutto color violaceo. Qualcuno mormorò sommessamente “bravo” e la seduta fu rapidamente sciolta. La voce subito si sparse, e a casa i miei misero fuori le bandiere e apparecchiarono la tavola con una tovaglia candida, i calici di cristallo e le migliori bottiglie dalla cantina.

Perché una cosa era assolutamente certa: non avrei mai fatto il Primario.

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