La nonna alimurgica

Quando non andava ancora di moda

Ogni tanto capitava che a mia nonna Rosa, nata negli anni ’80 del XIX secolo, “avanzasse” mezza fuscella di ricotta, per cui decideva che a pranzo avrebbe fatto i tortelli: usciva di casa, andava a vedere nell’orto o nei campi vicini se trovava un po’ di bietoline, magari due cime d’ortica, un mazzetto di mentuccia, poi tornava e si metteva a fare l’impasto. D’autunno, in paese, gli uomini si vantavano al bar o in osteria di fortunate schioppettate alla lepre e dei gran cesti di funghi raccolti: insomma nella gran parte dei paesaggi rurali del nostro Paese era ancora viva una lunghissima tradizione di caccia e di raccolta spontanea accompagnata da sapienze alimentari puntualmente tramandate che, in sostanza, ti facevano tirare avanti la vita un po’ meglio, specialmente nei periodi di cattive annate agricole.

Era un’Italia poco industrializzata, quella di mia nonna. Una nonna, la madre di mio padre, che purtroppo ho conosciuto poco perché morì negli anni ’60, quando ero bambino — ma di cui ho sentito raccontare molto in famiglia. Ricordo che viveva in una casa, nel suo paese, col pavimento in mattoni e con una cucina che a me sembrava grandissima, dove troneggiava un grande focolare con tanto di alari e fornelli, dove mia nonna aveva cucinato per anni. Tortelli (la mia passione) o magari due “strozzapreti” — spaghettoni tirati a mano, che a Siena chiamano “pici” — conditi con le briciole di pane fritte nell’olio. O col sugo di lepre o di cinghiale, visto che quand’era tempo di caccia non c’era famiglia che non avesse un pezzo di carne selvatica da cucinare o conservare.

Certo, altri tempi, ma non così lontani. Poi ovviamente tutto è cambiato, specialmente nelle città. In pochi anni abbiamo modificato l’alimentazione: più veloce e meno “tradizionale”, magari con apporti interessanti di cucine altre. Poi l’industria alimentare, un po’ complice la sanità, ha fatto scoprire il biologico, cioè l’agricoltura non intensiva e più sostenibile, soprattutto per una società mediamente ricca e come non mai sottoposta alla persuasione capillare veicolata da un’informazione onnipresente. Non che questo sia un male, ovviamente: si vive meglio e più a lungo, almeno noi del vecchio Occidente, per cui il bilancio tra ciò che abbiamo perso e ciò che abbiamo guadagnato è senz’altro in attivo. Quando tutto questo (ammesso che succeda) diventerà realmente un fenomeno planetario, c’è caso che il bilancio crolli rapidamente verso la perdizione. Ma non vorrei addentrarmi in questo genere di discorso.

Oggi, mia nonna sarebbe una “forager”. Curioso, vero, come basti un semplice anglicismo per trasformare una vecchia nonna in un personaggio alla moda. Oggi infatti va di moda passeggiare in collina o in montagna per raccogliere prodotti spontanei, vegetali, da consumare al ritorno a casa in nome di una gustosa e salutare alimentazione. Pensa un po’ che novità. Risotti con ortiche, sclopìt (se siete in Friuli), bruscandoli (se siete a Trieste), pisciacani (se siete in Maremma), zanguni (se siete in Salento) e così via. La tradizione rientra dalla finestra, è ovvio, anche se il ristorantino che vi propone queste meraviglie ve le fa pagare come se foste seduti a un tavolo di un ristorante stellato. D’altronde, se vivete in una grande città, lavorate fino al sabato, siete benestanti e seguite i principali trend del momento, il foraging può rappresentare una piacevole attività che vi fa sentire migliori. Tutto bio, sostenibile, e poi la regola è raccogliere solo ciò che può essere consumato subito. Una specie di bucolico all you can eat corretto e sostenibile.

Una curiosità: il termine anglosassone forager indica tecnicamente i cacciatori-raccoglitori delle società primitive. I nuovi forager, invece, perlopiù detestano la caccia e fanno parte di società molto evolute. Ma questo è un problema da lessicografi.

Più interessante è che, prima di questo, sia esistito ed entrato in uso un termine: alimurgia, coniato da un grande medico e naturalista fiorentino del ’700, Giovanni Targioni Tozzetti. Il termine ebbe un grande successo, soprattutto nell’800, ed è tornato di moda, anche se un po’ corretto: fito-alimurgia, così da adattarsi a tutte le ideologie alimentari.

Ma cos’è realmente l’alimurgia, almeno nel pensiero del nostro scienziato — consulente del Granduca di Toscana e, tra l’altro, il primo a promuovere la vaccinazione antivaiolosa nel 1756 presso lo Spedale degli Innocenti a Firenze?

Chi si interessa di storia della Toscana conosce senz’altro Targioni Tozzetti per le sue Relazioni d'alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, per osservare le produzioni naturali, e gli antichi monumenti di essa (1751-1754), lettura particolarmente interessante per chi desideri avere un quadro impietoso della povertà e dello squallore della Toscana appenninica, costiera e meridionale dell’epoca, dopo lo sfruttamento e l’incuria del governo mediceo.

Nel 1767, anno della pubblicazione della Alimurgia, era appena terminato il disastro di una gravissima carestia iniziata nel 1763, seguita da un’epidemia che colpì l’Italia centromeridionale e in particolare la Toscana, mettendo in luce una serie di gravi disfunzionamenti nei meccanismi annonari, specie nel meridione. La carestia dovuta a problemi climatici non era comunque una novità, specie in una Toscana già fortemente impoverita, soprattutto nella fascia sud-orientale.

Nel novembre del 1766 , all’inizio del secondo anno di regno, il granduca Pietro Leopoldo di Lorena aveva lanciato una grande inchiesta economica che doveva analizzare e sviscerare le condizioni del paese nei suoi vari settori produttivi (agricoltura, artigianato e commercio) e servire come base di partenza per le successive riforme economiche e finanziarie, ritenute a ragione indispensabili per far ripartire un paese in fase decisamente stagnante, caotico nell’amministrazione, caratterizzato da ampie zone di terreni paludosi e incolti, con un settore primario sottosviluppato anche se ricco di potenzialità.

È in questo clima che si collocano due opere pubblicate a Firenze con lo scopo di indicare possibili alternative al grano, tali da sopperire ai bisogni alimentari della popolazione, ovvero Delle specie diverse di frumento e di pane siccome della panizzazjone, del medico e naturalista Saverio Manetti, pubblicata a Firenze nel 1765 e appunto l'Alimurgia, o sia Modo di rendere meno gravi le carestie di Giovanni Targioni Tozzetti, uscita sempre a Firenze due anni più tardi.

Concepita come un solo volume, l’opera di Targioni Tozzetti lievitò fra le mani dell’autore, che nella dedica ai lettori annunciò un piano editoriale più ampio. Ma l’opera non verrà mai completata: Targioni fu travolto da una violenta polemica con Felice Fontana, naturalista e anatomico fiorentino, e ostacolato dalla crescente disaffezione del Granduca. Così la parte prevista sulla raccolta spontanea non vide mai la luce.

È interessante però rileggere la prefazione:

«Che questa mia fatica sia per riuscire di tanto in tanto utile e necessaria a miei paesani e ad altri popoli ancora confinanti con la Toscana, perlomeno a coloro che dimorano più lontani dalle città e nelle più nascoste campagne (…) Le regole pratiche saranno queste:
I. La teoria fisica intiera della, principiando dalla scelta, conservazione e preparazione delle Sostanze Cereali, e procedendo gradatamente sino alla loro riduzione in Pani, Pulende ecc.
II. Un Catalogo metodico di tutte le parti di Vegetabili, o spontanei, o coltivati, o per materiali di varie Arti, o per Capi di Commercio.
III. Un Trattato delle coltivazioni di molte piante nostrali e forestiere, le Radiche delle quali possono somministrarci alimento e compensare la mancanza de’ Frutti sopr’a terra (…)»

Insomma, un trattato contro la fame e la carestia, perché proprio di questo si occupa l’alimurgia. Ovviamente i tempi sono cambiati, per fortuna, e oggi il foraging — o meglio la (fito)alimurgia — può essere un passatempo domenicale sano e interessante.

A patto, però, di sapere bene cosa raccogliere, magari frequentando un corso apposito.

Lo dico perché, in genere, nei Pronto Soccorso non si è ben preparati sugli avvelenamenti accidentali da specie botaniche selvatiche …

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