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La lepre che rumina
Mangiare da cristiani nell'alto medioevo

Siamo a metà autunno ed è tradizionalmente tempo di caccia. Lo so: la caccia è considerata da molti una cosa “scorretta”, roba da assassini di poveri animali indifesi. Non è così, ovviamente, ma non è questo il luogo per discuterne.
Comunque sia, dalle mie parti, terra di cacciatori, questo è il periodo in cui si caccia e si cucina la lepre. In umido, per poi portarla in tavola trasformata in pappardelle colla lepre o, come diceva Giacomo Puccini, sulla lepre. Una delizia per assassini (o loro fiancheggiatori) di animaletti indifesi, ovviamente. Il sottoscritto, ad esempio.
La lepre comune (Lepus europaeus) è un mammifero lagomorfo appartenente alla famiglia dei Leporidi. Quella dei leporidi è una famiglia numerosa, che comprende le varie specie di conigli selvatici e domestici e anche la sottofamiglia dei Leporinae (tribù dei Leporini), che comprende le 32 specie di lepre che popolano il mondo. Questa lunga e noiosa premessa tassonomica serve a sottolineare la differenza tra una lepre e, per esempio, un cammello o un bue, che invece sono del sottordine dei Ruminanti, assieme alle pecore, gli antilopi, le capre e i cervi. In effetti il cammello non è un Ruminante ma un Camelide, anche se in effetti rumina, tanto che si considera facente parte di un sovragruppo di ruminanti senso stretto. Ma questo poco ci interessa, in questo momento. Una cosa è comunque chiara: la lepre non rumina. Fa quello strano verso col naso come fanno i conigli, movimento che gli permette di controllare la quantità d'aria inalata, ma certamente la lepre o il coniglio non ruminano, anche perché non hanno, per dirla in soldoni, l’ òmaso e l’abòmaso come le mucche.
Perché stiamo facendo questo ragionamento? Perché a un certo punto della nostra storia alimentare europea, la lepre è stata “accusata” di ruminare come le pecore, e questa accusa l’ha spedito direttamente in pentola a rosolarsi in arrosto morto, senza tanti problemi di coscienza (non della lepre, ovviamente).
Dopo il collasso dell’Impero Romano e la polverizzazione degli insediamenti nelle campagne, i prodotti dell’agricoltura, piuttosto scarsi in molte zone per la penuria dei terreni coltivabili rispetto ai terreni a pascolo o a bosco, venivano integrati con i prodotti della raccolta selvatica e della caccia per garantire un adeguato apporto proteico e lipidico alla dieta. Generalmente i villani non potevano accedere a strumenti costosi come quelli indispensabili per cacciare la grossa selvaggina come lance, archi potenti, armature difensive e soprattutto cavalcature o cani da caccia, per cui erano costretti a cacciare soltanto piccoli animali. Insomma mentre Carlo Magno si divertiva a cacciare il cinghiale armato solo di uno spiedo per dimostrare la sua forza, il contadino che doveva sfamare la famiglia rimanendo vivo tendeva trappole e tagliole, scagliava le pietre e cacciava al massimo con l’arco. Ovviamente cacciava volatili ma anche lepri, che dovevano essere piuttosto frequenti sul desco contadino, magari conservate previa affumicatura per i momenti difficili dell’inverno. Poi ovviamente c’era il maiale, fonte di carne ma soprattutto di grasso, che veniva generalmente allevato nei boschi. Insomma, a parte i momenti tragici delle carestie o delle guerre, il desco altomedievale doveva essere abbastanza vario e perlomeno sufficiente per la dura vita in campagna o presso al bosco. Tra l’altro la bioarcheologia sta confermando puntualmente questa situazione alimentare.
Il problema, per gli evangelizzatori altomedievali, era quello non solo di portare la Buona Novella, cosa già difficile di per sé in popolazioni legate a riti agrari tradizionali, quanto portare anche le regole del “vivere cristiano”: quello del cristianesimo delle origini. Regole che rischiavano però di far deperire gran parte della popolazione. Mi spiego meglio.
La chiesa cristiana delle origini derivava dalle comunità sinagogali, per cui molte regole valide per gli Ebrei erano passate anche ai Gentili cristiani. Tra cui le norme alimentari del Levitico che, a parte la proibizione assoluta del cibarsi di sangue, poneva altri divieti assoluti. Ovvero:
Potrete mangiare d'ogni quadrupede che ha l'unghia bipartita, divisa da una fessura, e che rumina. Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l'unghia divisa, non mangerete i seguenti: il cammello, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, lo considererete immondo; […] la lepre, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, la considererete immonda; il porco, perché ha l'unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo.
Praticamente erano ammessi solo capre, pecore, antilopi e cervi. E poi buoi: ma chiedere a un contadino di allora di mangiare un bue, qualora ce l’avesse avuto, sarebbe stato come chiedere a un agricoltore di oggi di mangiarsi, ovviamente in modo figurato, il proprio trattore.
Quindi, per aderire alla nuova religione, bisognava rinunciare a molti volatili (non contemplati o sospetti) alla lepre e soprattutto al maiale. Ovvero alle fonti proteiche e lipidiche primarie della dieta contadina. Una rinuncia del genere, facile per una appartenente al patriziato urbano, insomma per le signore della ZTL, come si usa dire oggi, era del tutto impensabile per un abitante di un villaggio rurale. Insomma, a questa povera gente non solo gli si portavano via gli dèi degli antenati ma anche il companatico: era decisamente troppo. Andava trovata una soluzione. Se ne trovarono diverse, ma sostanzialmente si affermò piano piano che il Vecchio Testamento, almeno in molte sue parti, era stato superato dalla Rivelazione. Tra cui le regole alimentari stringenti, che tra l’altro andavano, adesso, a differenziare una comunità che non era cristiana, ovvero quella ebraica. Quindi alla fine si mantenne l’obbligo dell’astinenza dalla carne il venerdì e del digiuno in alcune parti o vigilie dell’anno liturgico come distinzione di comunità, sollevando i fedeli da altre e più dolorose rinunce. Ma ci volle del tempo. Intanto si cominciò con la lepre.

Innanzitutto si cominciò a concederla ai malati, con la scusa che il fiele di lepre, di natura calda e secca (come dicevano i medici) aveva grandi proprietà terapeutiche nelle malattie consuntive e digestive. Poi, visto che la lepre “faceva bene”, si cominciò a chiudere un occhio se la mangiavano anche i sani, anche se questo, in fondo, era solo un mezzuccio. Bisognava quindi inventarsi una soluzione definitiva. Intanto Isidoro di Siviglia (VI - VII secolo), nelle sue Etimologie aveva classificato il coniglio e la lepre fra le pecore, perché sono animali che brucano l’erba. Quindi un passo importante era già stato fatto. Tra l’altro, visto che la lepre in pratica ha una zampa con le unghie divise, si dichiarò che possedeva l’unghia fessa proprio come la pecora: tanto anche il Levitico aveva sbagliato classificando la lepre come ruminante. Quindi la lepre diventava ufficialmente un ruminante con l’unghia fessa e quindi edibile sine peccato. E la questione finì lì.
Come per dire che l’Occidente, specie quello un po’ più meridionale, ha fatto del relativismo, anche religioso, un modo di vivere.
Anche per questo noi abbiamo avuto il Rinascimento. Per altri chissà se arriverà mai.
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