La casa nel bosco

Chissà perché gli architetti "ecologisti" vivono in centro a Milano?

Vivevo a Trieste, praticamente in centro, in un appartamentino al sesto piano di un bel palazzo che si affacciava su una via trafficatissima, vicino alla RAI e al Tribunale. Ricordo che una volta ho trovato un parcheggio libero sotto casa e sono andato a piedi per venti giorni solo per la soddisfazione di vedere la mia Triumph berlina rossa davanti al portone. Poi un giorno risposi ad un annuncio sul giornale. 

E così feci una follia, impegnai tutti i miei (pochi) risparmi e comprai una casa nel bosco. Ovviamente c’era una parte di me che accarezzava un sogno bucolico, tra flauti di pan, belve addomesticate e ninfe dei boschi, ma era solo una piccola parte di me, e per di più letteraria, destinata ad infrangersi rovinosamente contro la realtà, visto che in quel luogo l’unica cosa selvaggia erano i caprioli che ti ritrovavi la mattina in giardino mentre demolivano allegramente tutti i tuoi sforzi di giardinaggio e che ti guardavano come un intruso che invadeva la loro proprietà. La casa era vecchia, però aveva il riscaldamento e tutte le comodità del vivere moderno, a cui avevo aggiunto una bella cucina a legna e una stufa. E poi ci abitavamo in due, perché la mia “ragazza” (che poi diventerà mia moglie pochi anni dopo) ci abitava con me. Non sempre, i primi tempi, ma d’inverno faceva un po’ freddo perché c’erano da rimettere a posto per bene gli infissi. E poi i miei suoceri erano molto perplessi della scelta e insistevano perché abbandonassimo il bosco per, che so, un bell’appartamento in centro a Gorizia. Come loro e gli altri due figli, che abitavano ad un tiro di schioppo dalla loro casa. Erano semplici fisime, perché la nostra abitazione non era in un luogo selvaggio aspro et forte et privo di servizi ma a mezza costa su una collina del Carso, a mezzo chilometro dal municipio, a cento metri dalla stazione ferroviaria e in una posizione centrale tra Trieste, dove lavoravo, Gorizia e Udine. O fra Lubiana, Graz e Venezia, cosa di cui non mi fregava granché, però era bello dirlo.

La casa era effettivamente circondata da un bosco, con ancora i segni del rimboschimento effettuato per riparare ai disastri delle due guerre, a cui la casa era eroicamente sopravvissuta, insieme ad un’altra, in paese. C’erano anche alberi da frutto avanti casa, qualcuno inselvatichito, e una stradina in salita un po’ problematica col ghiaccio, ma non si può avere tutto dalla vita. Insomma era una bella casa, tra l’altro la mia prima casa, e senza condominio. Un paradiso dove potevo suonare la zampogna la sera senza disturbare nessuno o dove potevamo organizzare piccole feste chiassose senza problemi. Poi c’era il bosco, una stradina per passeggiare verso le trincee della Grande Guerra e un panorama verso le montagne che nelle giornate limpide d’inverno era veramente mozzafiato.

Il paese contava quattrocento anime ma era fornito di tutto, con due panetterie, il macellaio, il fruttivendolo, un paio di artigiani, poi anche un piccolo supermercato. A parte la Sala del Regno, curiosa cosa che però compensava il più grande centro di lap dance della regione, presso una grande villa poco distante, nonché altri localini gioiosi (i militari stavano smobilitando ma la tradizione era rimasta) molto frequentati da ricchi veneti in cerca di relax notturno e che contribuivano notevolmente all’economia della zona. I Testimoni di Geova poi davano poca noia, ed io comunque avevo già fatto il mio training a Trieste, quando ogni volta che mi suonavano alla porta mi dichiaravo adepto di una delle correnti eretiche del III secolo, costringendoli a studiare l’eresiologia cristiana e a farmi nuovamente visita (su appuntamento: a quei tempi vivevo da solo e avevo tempo da perdere in gherminelle ai danni altrui) per poi essere rimandati a studiare. Pollastri. Nella nuova casa ci provarono due volte, ma poi capirono che ero pericoloso (“vedete, non per tentare di convertirvi, ma la filologia ci insegna esattamente il contrario di ciò che dite, quindi …”) e non si fecero più vivi.

Insomma, era una casa nel bosco, e ci abitavamo volentieri perché era bella, grande, con un bel giardino in parte roccioso, un bel panorama e, d’accordo, qualche scomodità, ma non così tremenda. E poi ogni tanto, quando mettevamo da parte qualche risparmio, facevamo qualche lavoro di miglioramento. Poi nacque nostra figlia, che ha sempre vissuto al caldo e ha sempre avuto una tata quando andavamo a lavorare e che ha frequentato ovviamente le scuole pur vivendo un po’ fuori del paese. Ha studiato anche violino e ha fatto più o meno tutte quelle cose che si fanno da adolescenti, magari con un po’ più di fatica: ma se fosse nata in una famiglia di agricoltori isontini, non sarebbe stato poi tanto differente.

Poi hanno tirato via il bosco, o perlomeno quello che dava verso il paese, Verdi regionali compiacenti, per costruire nuove case. Una decina d’anni dopo. Diffidare dalle amministrazioni rette da geometri e politicamente al comando dal dopoguerra. Doveva essere realizzato il “Parco dell’Isonzo”, ma il mattone era considerato “il volano dell’economia”. E così via il bosco e tutti zitti, associazioni ambientaliste comprese. Qua in paese l’estate fanno ancora la festa del Partito Comunista, quello “vero” di quando ero ragazzo: sono anni che me la perdo, perché la fanno d’estate quando sono in vacanza. Quest’anno ci andrò, se non altro per fare il pieno di ricordi e controllare che non mangino più i bambini. Questa battuta l’ho fatta una volta, se non mi ricordo male, proprio al sindaco, e ci siamo messi a ridere come bambini. E nessuno ci ha mangiato, ovviamente.

Quasi quarant’anni dopo la casa è diventata più bella, con la facciata in pietra, due altissimi cipressi all’ingresso, la stradina asfaltata e un pugno di case in basso, non bruttissime, abitate da gente simpatica che parte la mattina e ritorna la sera. Perché il mattone ha trasformato il paese in un luogo di residenza. O in un paese-dormitorio, se vogliamo dirla tutta. Non ci sono più la lap dance né le donnine, neanche il macellaio e i Testimoni di Geova e il bar ce l’hanno i cinesi che sono deliziosi ma il caffè non lo sanno proprio fare. E alle elezioni abbiamo rischiato di farci commissariare perché non c’erano candidati a sindaco. Il bosco, che un tempo frequentavamo di notte per passeggiare sotto la luna, adesso è pericoloso, pieno di cinghiali e sciacalli, e nessuno cura più il sottobosco e gli alberi sono pieni di edera, però se ti beccano a fare asparagi, visto che rovini la natura, ti spellano vivo.

Ebbene si. In “vacanza” andiamo in appartamento, con tanto di condominio e praticamente attaccato al centro storico. Vicino ci sono la biblioteca, un museo, due panettieri, un macellaio, due bar e un’osteria.

C’è gente che la seconda casa se la fa in un casolare di montagna. Beh, io ho già dato. Con la prima.

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