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La carta di Damasco
e la fine di un sogno

Una quindicina di anni fa fummo invitati dalla Società Dante Alighieri a partecipare ad una manifestazione cultural – commerciale a Damasco, nell’ambito di quello che doveva essere il progetto “Vie della seta”. In pratica preparammo un evento gastronomico storico utilizzando ricettari d’epoca federiciana pensando ad una cucina “mediterranea” sostanzialmente sincretica tra la “vecchia” cultura romana e la “nuova” cultura dell’Africa del nord e del Vicino Oriente. Marialuisa preparò il progetto, come ogni volta, e partimmo assieme agli amici de “La Rossignol” che avrebbero curato gli eventi spettacolari. Fu un vero successo, tanto che uno dei partecipanti, che poi era il ministro siriano dell’Economia, celebre gourmet, si lasciò sfuggire qualcosa come “questa è la cosa migliore che abbia mai mangiato” di fronte ad una scabezia di pesce condita con quelle incredibili dolcissime prugne secche damascene, come da ricetta. Il giorno dopo, con nostra grande sorpresa, la nostra fotografia era sui giornali.
L’evento era stato organizzato in un caravanserraglio sei – settecentesco coperto di marmo verde che aveva tre giardini, uno all’interno dell’altro. Nel giardino più interno, quasi un hortus conclusus dove potevi immaginare Sherazade paludata di sete preziose e trasparenti, avevamo allestito i tavoli coperti da tovaglie bianchissime dove erano posti i grandi piatti di portata. L’evento finì prima del tramonto, cosicché io e Marialuisa ci trovammo praticamente da soli, stanchi morti ma felici, seduti sul bordo di una fontana all’interno del palazzo, mentre la sera era ormai calata quasi del tutto e in un cielo terso splendeva una mezza Luna. C’era anche Venere Vespero che brillava e tutto era magico: a Damasco ho lasciato veramente una parte del mio cuore.
Il giorno dopo, accompagnati dall’addetto culturale, un professore damasceno di rara gentilezza e di grande umanità, io e Marialuisa andammo a fare un po’ i turisti: visitammo la tomba del Saladino, la Grande Moschea con il minareto dedicato a Gesù e la tomba di Giovanni (al-Zachara, il figlio di Zaccaria) il Battista, anche lui venerato profeta e poi andammo a visitare il museo archeologico, pieno di mosaici greco-romani.
“Noi siamo fondamentalmente romani, quindi cugini, legati dalla stessa cultura” ci disse a un certo punto il nostro accompagnatore. Annuimmo, consapevoli che quella cultura a cui lui si riferiva era in un tempo precristiano e preislamico: però era ciò che ci univa e che bene o male avrebbe unito sempre il Vicino Oriente e l’Africa de Nord con la Vecchia Europa, o perlomeno con l’antica Europa del Mediterraneo. Pensai al curdo Saladino e a Federico II, al sincretismo dei “profeti” giudaico-cristiani, Giovanni figlio di Zaccaria, Gesù figlio di Maria, alla possibilità di trovare piani culturali comuni, alla potenza unificatrice della cultura e della tolleranza. A una Damasco, com’era, piena di campanili e minareti.
In una delle ultime sale, alla parete, troneggiava una grande carta geografica. La scrutai con interesse, poi osservai (ma non con sorpresa): “In questa carta geografica manca Israele”.
“Israele non esiste” mi rispose cortesemente il nostro accompagnatore.
Pochi mesi dopo Damasco crollava sotto le bombe, vittima di una cieca autofagia partita dalle primavere arabe e che non si è ancora fermata né si fermerà.
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