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Il pericolo della felicità
Il faraone Amasis, Policrate di Samo e un bel saggio recente.

Mia madre buonanima, esperta del bicchiere mezzo vuoto, ci ha ammaestrati fin da piccoli a non essere felici. A non pensarlo, a non dichiararlo. Perché se sei felice, se la vita ti sorride rosea, diceva, è quello il momento della disgrazia in arrivo. Un insegnamento che è rimasto nel sottofondo della mia coscienza e che contribuisce ad arricchire, sia pur modestamente, il mio psicologo. Devo confessare che mia madre aveva idee tutte sue che probabilmente provenivano dal suo pabulum culturale da isolana (era di Rio Marina), oltreché da una sua naturale predisposizione al pessimismo: da grandicello mi sono reso conto quanto quel paese dell’Isola d’Elba mantenesse abitudini e riti di lunga e forse lunghissima durata, nonostante la sua storia tormentata e i saccheggi di Turghud Alì, il crudele corsaro ottomano detto Dragut. Idee antiche o superstizioni, scaramanzie, residui certamente non cristiani, visto che a un certo punto del nostro ragionare da mortali abbiamo associato alla divinità la figura del giudice benigno che può, già in questa vita, elargirci qualche premio. Sto parlando del Dio cristiano, uno e trino, e non dello stesso Dio che tirava degli scherzi micidiali a Giobbe o a Mosè. A questo proposito andatevi a leggere un libretto dissacrante quanto divertente di uno scrittore e giornalista ebreo, Shalom Auslander, intitolato Il lamento del prepuzio (Guanda, 2009) per apprezzare le differenze e le somiglianze di due culture (la nostra e l’ebraica) così affini e così diverse.
Ma torniamo alla felicità. Posso assicurare che mia madre non aveva mai frequentato letture che andassero oltre ai rotocalchi o a qualche classico della letteratura per fanciulle e signore, per cui Esiodo, Erodoto, Platone o Agostino di Ippona non facevano certamente parte del suo bagaglio culturale. Magari, mediata da una letteratura orale per l’infanzia, poteva aver conosciuto la storia di Policrate, anche se dubito: ce l’avrebbe senz’altro raccontata, se non altro per ribadire ancora una volta la bontà dei suoi ammaestramenti.
La storia di Policrate, per chi non se la ricordasse, è questa:
Policrate figlio di Eace, che dominava Samo (…) instaurò un rapporto di ospitalità con Amasi, il re dell'Egitto, inviandogli doni e ricevendone altri da lui. E in poco tempo la potenza di Policrate crebbe subito e fu celebrata nella Ionia e nel resto della Grecia; dovunque infatti si dirigesse per combattere, tutto gli riusciva felicemente. (…). E d'altra parte ad Amasi non sfuggiva che Policrate aveva grande successo, ma per lui questo era motivo di preoccupazione, e poiché la fortuna diventava per lui ancora molto più grande, avendo scritto le seguenti parole in una lettera, le inviò a Samo: "Amasi a Policrate così dice. È piacevole venire a sapere che un amico e ospite ha successo, ma a me le tue grandi fortune non piacciono, poiché so quanto la divinità sia invidiosa. E d'altra parte voglio che, sia io sia le persone che mi stanno a cuore, in qualcuna delle situazioni abbiano successo, in qualcuna invece falliscano, piuttosto che avere fortuna in tutto. Infatti non conosco ancora nessuno che, avendo buona sorte in tutto, alla fine non sia stato stroncato malamente fin dalle radici. Tu dunque dai retta a me e fai qualcosa del genere: pensa a ciò che tu trovi esserti particolarmente caro e per cui, se andasse perduto, più che mai soffriresti nell'animo, e gettalo via. E se ormai in seguito a ciò i successi a te non capitassero in alternanza con le disgrazie, rimedia nel modo da me suggerito."
Policrate avendo letto queste parole e avendo compreso che Amasi gli suggeriva bene, si chiese per quale degli oggetti preziosi avrebbe sofferto particolarmente nell'animo nel caso in cui fosse andato perduto, e chiedendoselo trovò questo. Egli aveva un sigillo che portava, incastonato nell'oro, di smeraldo, ed era opera di Teodoro figlio di Telecle di Samo. Poiché dunque decise di gettar via questo, fece qualcosa del genere: dopo aver fatto equipaggiare una pentecontere, vi si imbarcò, e poi ordinò di salpare verso il mare aperto; e quando giunse lontano dall'isola, toltosi il sigillo, mentre tutti i compagni di navigazione lo vedevano, lo gettò nel mare. E avendo fatto questo si allontanò, e giunto a casa si sentì in disgrazia. Ma al quinto o al sesto giorno dopo questi fatti gli accadde che si verificasse questo.
Un pescatore avendo preso un pesce grande e bello ritenne opportuno che esso fosse dato in dono a Policrate. Portandolo quindi alle porte della città disse di voler giungere al cospetto di Policrate, ed essendogli stato possibile questo, consegnando il pesce, disse: "O re, io avendo preso questo non ho ritenuto giusto portarlo al mercato, pur essendo uno che vive del proprio lavoro, ma mi sembrava che fosse degno di te e del tuo potere; a te dunque portandolo lo do." Ed egli, rallegratosi per le parole, risponde così: "Hai fatto molto bene e la mia gratitudine è doppia, per le parole e per il dono; e ti invitiamo a pranzo." Il pescatore dunque, molto orgoglioso di questo, entrò nell'abitazione. E i servi, tagliando il pesce, trovano che nella sua pancia ci stava il sigillo di Policrate; e non appena lo videro e lo presero, lo portarono contenti da Policrate, e consegnandogli il sigillo gli dissero in quale modo fosse stato trovato. Ed egli, quando gli venne in mente che il fatto era di origine divina, scrisse in una lettera quale risultato avevano avuto tutte le cose che lui aveva fatto, e la inviò in Egitto. Amasi, dopo aver letto la lettera che gli era arrivata da Policrate, comprese che è impossibile per un uomo allontanare un altro uomo dalla situazione che è destinata a verificarsi e che Policrate non era destinato a finire bene avendo successo in tutto, lui che trovava anche le cose che buttava via. E avendogli inviato un araldo a Samo, disse di voler sciogliere il vincolo di ospitalità. E fece ciò per non soffrire lui stesso nell'animo quando una sciagura terribile e grave fosse capitata a Policrate.
Questa storia ce la racconta Erodoto (Hdt. III 39-43), condividendo implicitamente un concetto caro al pensiero arcaico: solo gli Dei sono felici e quindi sono invidiosi degli umani che in qualche modo vivano le loro prerogative. Pensiero appunto arcaico che diventò rapidamente incompatibile con i nuovi concetti sociali e filosofici della polis greca e successivamente della civiltà romana. Il Cristianesimo, anche nella sua “interpretazione” medievale cancellerà completamente il concetto di phtonos theos, di invidia degli dei. Così come condannerà senza appello l’invidia, peccato capitale, senza remissione: concetto questo differente da quello del mondo antico. Già Esiodo aveva ben chiaro il concetto che esistevano due tipi di invidia, di cui una maligna (phtonos) e una di grande utilità (zelos) che spinge all’emulazione e al miglioramento di sé e della società. Concetti che passeranno anche attraverso Platone e Aristotele al mondo imperiale romano.
Questa è una delle tante riflessioni che può suscitare il bel saggio di Dino Baldi pubblicato l’anno scorso da Quodlibet: È pericoloso essere felici. L’invidia degli dèi in Grecia, denso ma leggibile, senza cedimenti di interesse. Il solo problema, se proprio vogliamo trovarne uno, è che lo studio si ferma al mondo antico: ovviamente aspettiamo l’eventuale continuatio medievalis, anche se Leopardi, che si era occupato di questo problema, ribadiva che il concetto dell’invidia degli dei si era già attenuato in Omero e poi le sue tracce diventavano sempre più labili (Zibaldone, 31 marzo 1829).

Policrate e il pescatore
A proposito, per chi non lo sapesse: Policrate fece davvero una brutta fine. Poco dopo l’abbandono del faraone Amasis, Policrate si scontrò con i Persiani di Cambise e stavolta la fortuna lo abbandonò. Il satrapo persiano Orete lo attirò con l'inganno presso di sé e lo fece torturare e crocifiggere.
Evidentemente gli dei ne avevano abbastanza di lui.
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