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Il fantasma amato
L'amore secondo Dino del Garbo (e non solo).

Diversi anni fa, uscì nella terza pagina de “Il Piccolo” di Trieste, un articoletto in occasione della festa di San Valentino, dove Margherita Hack spiegava come l’amore in fondo non fosse altro che una necessità biologica riconducibile a più o meno complicati processi biochimici e neurochimici, e che quindi la festa di san Valentino non era altro (detto in soldoni) che una romanticheria antiscientifica. Quando lessi l’articolo mi venne da ridere perché mi ricordai di una battuta di Tom Antongini, scanzonato Leporello di Gabriele d’Annunzio, che fa dichiarare all’immaginario zio Gustavo che in fondo l’amore non è altro che un’atavica attrazione di un ovulo verso uno spermatozoo. La similitudine fra il detto di una scienziata e di un umorista di fin siécle si commenta da sé, se non fosse per i rischi che uno scientismo elevato a regolamento sociale può portare alla società odierna. Tra parentesi, Carl Henegan, direttore del Centro per la medicina dell’Università di Oxford, ha scritto che “Scientific American era considerata una fonte affidabile per prepararsi agli esami. È la rivista scientifica più antica d’America. Fin dal 1845 era nota per gli articoli di fama mondiale. Non più: gli articoli di oggi sono pieni di stregoneria”. Henegan si riferisce ad alcuni articoli sulla binarietà degli umani, ma è solo uno dei tanti piccoli particolari. Una volta abiurato al metodo galileiano, si può sostenere di tutto, in nome di un qualcosa che è difficile chiamare appieno Scienza.
Ma il problema dell’amore come epifenomeno di materialità ha una lunga storia. Mi è capitato recentemente sottomano un commento del celebre medico fiorentino Dino del Garbo alla canzone Donna me prega di Guido Cavalcanti e, dopo un paio di pagine di (non facile) lettura, mi sono ricordato appunto di Margherita Hack, di Carl Henegan e, in fondo, anche di Tom Antongini e del suo divertentissimo zio Gustavo. In breve.
Dino del Garbo insegna medicina a Bologna nei primi anni del ‘300, poi a Siena e quindi di nuovo a Bologna, poi a Padova e di nuovo a Siena. È allievo di Taddeo Alderotti e quindi è un medico dotto e celeberrimo, professore universitario e clinico strapagato. Autore di almeno due commenti notissimi sul Canone di Avicenna, Dino è un medico averroista come il suo maestro, legato quindi a una visione materialistica e deterministica della medicina e, in ultima analisi, della vita umana. Una delle sue ultime fatiche, però, non è un trattato di medicina ma un commento ad una poesia-manifesto dell’averroismo dello stilnovista Guido Cavalcanti, amico di Dante (fino a un certo punto, come traspare dalla Commedia) e più vecchio di una ventina d’anni rispetto al nostro medico fiorentino. Una poesia sull’amore. Ma che cos’è l’amore per Dino del Garbo?
L’amore è passione d’amore, ovvero una malattia perniciosissima e talora mortale che non ha nulla a che fare con la virtù dell’animo ma piuttosto con la virtù appetitiva, di rango più basso ed istintivo, quella che genera l’ira, la tristezza, la paura e istinti simili. Una non-virtù, un istinto comune ai bruti e del tutto estraneo all’intelletto. E l’oggetto amato non è altro che un fantasma della memoria che viene considerato come reale ma che è solo un’illusione: è reale appunto solo per la virtù più istintiva, quella che regola le pulsioni e l’appetito del corpo. Tra l’altro, astrologicamente parlando, “un sapiente di nome Aly (…) dice che Venere, quando insieme a Marte partecipa alla nascita di qualcuno, lo fa innamorato, fornicatore, lussurioso e simili: e tutto questo rientra perfettamente in quella passione amorosa della quale si tratta”.
Insomma l’amore è un accidente pericoloso che può portare al corpo squilibri di umore melanconico che possono rapidamente portare a consunzione e morte. E se non credete a Dino dovreste credere perlomeno all’autorità di Avicenna o addirittura del grande Aristotele. La terapia? Allontanare l’oggetto, il fantasma d’amore. Fuggire, dimenticarlo. Non c’è altro rimedio. Insomma, benedetti ragazzi, perché non fate del sano sesso procreativo o ludico ed evitate di ammalarvi di desiderio? Facile, no? Tra l’altro questa malattia, secondo Dino, è molto più frequente nei nobili che nelle persone, anche agiate, che lavorano o comunque che hanno impegni quotidiani pressanti e non hanno tempo per pensare e rincorrere inutili fantasmi. In fondo si sa: l’ozio è il padre dei vizi e quindi alimento per la virtù appetitiva. Corollario: andate a lavorare, e vi passano i grilli nel capo.
Se pensiamo che in questo periodo la medicina ufficiale era diventata parte integrante della cultura sociale e politica del tempo, insomma era Scienza, che differenza c’è, in fondo, con certe dichiarazioni odierne?
Personalmente preferisco Dante e Beatrice. Non so voi.
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