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Il capestro del Podestà
Una cronaca del 1370 tra mogli contese, pesci all’arsenico e “valenti uomini”

In questi giorni sto leggendo la cronaca senese di Donato di Neri di messer Bonaguida. Donato era di professione ligrittiere, cioè venditore di panni a ritaglio, ma evidentemente sapeva bene di grammatica e, per quanto si sa dai pochi documenti che lo riguardano, era ben inserito, anche economicamente, nella turbolenta vita della città della Vergine.
La cronaca riguarda i fatti avvenuti fra il 1352 e il 1381 e, come spesso in questo genere di cronache, tra gli eventi politici, le guerre, le rivolte, gli arrivi di imperatori e compagnie di ventura, si trovano anche notizie della quotidianità. Insomma, fatti “minori” realmente accaduti, come ad esempio un caso di omicidio plurimo perpetrato dalla moglie di uno dei Dodici Governatori di Siena verso la famiglia di un Corsini per mezzo di un bel pesce avvelenato con l’arsenico, offerto graziosamente in dono. Donato ha un bello stile, chiaro e vivace, e tende ogni tanto, si direbbe oggi, a fare letteratura.
Sfogliando la cronaca mi sono imbattuto in una notizia che potrebbe essere tratta, se non fosse “vera”, da una raccolta di novelle moraleggianti di quell’epoca. Dato che mi ha divertito, ve la propongo, con una piccola premessa storica che riguarda una figura cardine dell’amministrazione del Comune medievale, ovvero il Podestà.
Il Podestà aveva potere esecutivo su molte cose del Comune, tra cui la giustizia, anche se questo era un arbitrio relativo: il Podestà, al termine del suo mandato, generalmente un anno, doveva dare conto ai Priori o comunque all’amministrazione politica del Comune del suo operato. E questo poteva significare anche essere multato o addirittura processato e condannato secondo le leggi vigenti.
Il Podestà, per garantire la propria indipendenza durante il mandato, aveva i suoi giudici e i suoi famigli e doveva essere necessariamente un forestiero, scelto generalmente da una commissione di “valenti uomini” che se ne andavano in giro a prendere notizie, perlomeno in teoria, dato che con il tempo i podestà divennero professionisti dell’attività podestarile, specializzati in diritto, che passavano da città a città. Questa libertà podestarile (con controllo finale) garantiva al Comune stabilità e continuità amministrativa nella giustizia e, soprattutto, serviva a compensare l’eccessivo potere del consiglio dei Governatori del Comune, che erano cittadini locali eletti da una lista di aventi diritto e quindi rappresentanti di un’oligarchia locale.
Trovare un Podestà bravo però era un’impresa. Qualcuno era troppo giovane e inesperto, qualcuno era arrogante e sgarbato, qualcuno era facilmente corruttibile, per cui l’amministrazione aveva il suo bel daffare per trovarne uno degno. D’altronde anche il Podestà evitava per quanto poteva lo scontro con i locali, fossero essi governatori o semplici cittadini, anche perché aveva tutto l’interesse a riscuotere il suo compenso alla fine del mandato. Insomma, giustizia sì, ma con cautela.

La trama di questa cronaca è molto semplice: a Firenze, sotto il Podestà messer Nicola Rosso da Teramo, un cittadino fa bandire dalla città un povero uomo per potergli togliere la moglie e cerca poi di farlo impiccare quando lui torna di nascosto a vederla. Scoperta la verità, il Podestà fa togliere il cappio dal collo del povero e lo fa mettere a quello del cittadino. Alle proteste dei parenti e di chi chiede spiegazioni, Nicola Rosso risponde che il cittadino ha agito a torto, cercando di far impiccare un innocente solo per portargli via la moglie, e che per questo è giusto che la pena ricada su di lui. Inoltre sottolinea che il Podestà, cioè lui, ha la “ragione” e l’“arbitrio” di farlo, cioè il diritto e il potere di decidere così secondo giustizia. Dopo aver udito questa spiegazione, il popolo approva la sentenza, e la fama di rettitudine di Nicola Rosso è tale che i Senesi in seguito lo eleggono come proprio Podestà.
Il racconto di Donato funziona benissimo come exemplum civico, tra l’altro in un momento della vita politica senese piuttosto complessa e cruenta. Il “buon governo” del Podestà difende il povero, punisce l’abuso del cittadino, cioè del ricco (e potente) e costruisce la fama di un magistrato “valente omo”. È difficile non sentire, in controluce, l’eco del vecchio Buon Governo dei Nove – quello messo in scena da Ambrogio Lorenzetti in Palazzo Pubblico – proprio mentre, dopo la loro caduta, si succedono i governi “popolari” dei Dodici e poi dei Quindici, pieni di promesse di giustizia ma attraversati da crisi e rivolte. In questo senso la “diritta e vera justizia” di messer Nicola Rosso potrebbe adombrare non solo il buon governo del singolo, ma anche di quello dei “valenti uomini” chiamati a reggere le magistrature comunali. Attenzione: uomo o uomini non integerrimi ma “valenti”. Perché per quella società di mercanti, usurai, nobili possidenti e piccoli artigiani l’integrità morale era “valere” per il bene pubblico, non morire in odore di santità.
Altri tempi, ovviamente: qui siamo ancora tra forche e cappi, non proprio l’ideale di un democratico stato di diritto. Però, tolta la corda, l’idea di fondo resta interessante: il Podestà che usa il suo potere per frenare l’abuso del cittadino “forte” e proteggere il “povaro omo”, sapendo che alla fine del mandato qualcuno gli chiederà conto di quello che ha fatto. Poteri chiari, responsabilità personali, controlli ex post: niente effetti speciali, poca epica, ma una discreta dose di civiltà.
Godetevi questa cronaca - che vi riporto con minime normalizzazioni per non togliere la freschezza di questo senese trecentesco. Dimenticavo: siamo nell’anno del Signore 1370.
Io voglio contare una diritta e vera justizia che fe' in Firenze misser Nicola Rosso da Teramo d'Abruzzo che era podestà in Firenze, e fu a dì 26 d'ottobre, e fu in questo modo.
Uno cittadino in Firenze si tenea una bella donna d'uno povaro omo di Firenze, e fe' tanto questo cittadino che fe' dare bando al marito di quella donna per potere meglio e più sicuramente stare a suo piacere con lei. Accadde che questo sbandito venne in Firenze a vedere la moglie più segretamente che poté; di che quello cittadino se n'avide e fecelo pigliare dal detto Podestà e sollecitollo tanto che perdesse la vita: e così fu giudicato a la justizia. E quando si dovea leggiare le condenagìoni de la sententia, el detto podestà el domandò: «Avresti tu donna?» E lui rispose: «Io ho una bella donna e tiensela el tale "cittadino”», e allora el detto podestà s'avide de la solecitudine di quello tale cittadino di fare morire colui. E subito il detto podestà mandò per quel cittadino, e demandollo in presentia di costui se egli el cognosceva e lui disse di sì, «ed è quello che tiene la donna “mia”». El podestà disse a quel cittadino : «È vero?». Lui non lo seppe negare. E per questo il detto podestà disse a quello che andava a le forche: «Trati cotesto capestro» ; e fello mettare a quello cittadino, e lui fe' andare innanzi con uno ulivo in mano, e quello cittadino condennò a le forche: e così dè la sentenzia senza più parole e tempo. E così di subito fu menato a le forche, e tutto il popolo si facea grande maraviglia, e ognune correva a vedere e domandava la cagione; e' suoi parenti faceano grande romore e andavano e mandavano al podestà a pregare che non facesse a tanta furia questa justizia sì crudele. E in effetto el podestà diceva la cagione a tutti, come a torto avea adoperato che questo povar’omo fusse impicato per torli la moglie, «e questo si die fare a lui e così lo voglio fare impiccare, e non voglio darli più tempo, che non voglio che campi; e fogli ragione e ho l'albitrio di fare. E così il detto podestà dicea a ognuno, e così ognuno, quando aveano udito el podestà, lo comendavano. E parve che tutta Firenze ne fusse lieta; e così fe' la detta justizia. E poi al fine del sindacato del detto podestà, non fu alcuno che li dicesse nulla, e partissi co' le grazie di tutta Firenze.
I Sanesi, sentendo la fama del detto misser Nicola Rosso che era così valente omo, e facea justizia come in Firenze avea fatto, e questo lo elessero per podestà di Siena, e cosi li mandoro la lezione.
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