Il calcolo poetico

alla scoperta di Ciro di Pers

Ogni tanto, la sera, vado a pesca di letture piacevoli e curiose navigando nel mare della letteratura italiana dei secoli passati. L‘altra sera mi è venuto alla mente un poeta barocco che aveva scritto una poesia sui suoi calcoli renali: avevo trovato la notizia su un vecchio fondo di Giorgio Manganelli e ho girato un po’ sui motori di ricerca per individuare l’autore. Sono approdato a un volumetto edito a Firenze nel 1666 e dedicato a Leopoldo Granduca di Toscana da un nobile friulano che aveva raccolto le poesie, quasi tutte inedite, del fratello scomparso da non molto. “Poesie del Cav. Fra Ciro di Pers. Al Sereniss. Principe Leopoldo di Toscana. In Firenze, All’insegna della Stella, 1666”.

Lettor Cortese.
Io pretendo, che tù m’abbia ad havere un grand’obligo, mentre ti fò parte di un pretioso tesoro, che mi giunse alle mani, vuò dire dei veri, e legitimi parti della virtuosissima penna del Cavaliere Fra Ciro di Pers, il miracolo della Poesia …

Queste prefazioni secentesche mi divertono e mi sorprendono ogni volta, coi loro pretiosi tesori e le loro virtuosissime penne. Però il contenuto del libro è veramente degno di nota, anche perché ho avuto la ventura di pescare un autore che, nonostante il parere del De Santis, che aveva in uggia la poesia barocca e che praticamente considerava quasi tutti i poeti dell’epoca dei manieristi di ben poca sostanza, può essere considerato uno degli autori di spicco del Seicento, ben conosciuto da Giacomo Leopardi anche se oggi poco noto, anche in Friuli: Ciro di Pers.

Nobile, della casata de Colloredo, Ciro nasce nel 1599 nel castello di Pers, l’odierna Majano, studia dapprima con Iginio Maniaco, umanista di Gemona, poi se ne va a Bologna dove ha importanti frequentazioni con gli intellettuali locali. Si innamora di Taddea di Colloredo, piu giovane di lui di quattro anni, vagheggiata per tre lustri ma senza risultato, tanto che decide di entrare nei Cavalieri di Malta, nel 1626. Taddea morirà qualche tempo dopo, all’età di trentatré anni. Alla morte del padre tornerà in Friuli, stabilendosi a San Daniele e tenendo contatti con nobili e intellettuali veneziani e praticando quell’otium caro ai letterati dai tempi di Tibullo. Ciro si interessa un po’ di politica, ma sta alla larga dall’azione: scrive qualche invettiva sulla decadenza dell’Italia, diversi carmi celebrativi a re e grandi personaggi, insomma fa il buon letterato, un po’ periferico anche rispetto a Venezia, ma fondamentalmente se ne sta tranquillo a scriver sonetti venati di fine erotismo o intrisi di malinconia per la consapevolezza del tristo passare del tempo. A sessant’anni comincia a soffrire di calcoli renali e di vertigini che gli turbano non poco la vita che concluderà nel 1663, a sessantaquattro anni.

Ciro non tenne in grande considerazione la sua produzione poetica, pubblicando in vita soltanto qualcuna delle sue opere, che invece furono numerosissime: il corpus poetico di Ciro contava, alla sua morte, di oltre duecentoottanta composizioni, in gran parte poesie di argomento amoroso, com’è tradizione per la nostra letteratura poetica. La Laura di Ciro, Nicea – al secolo appunto Taddea di Colloredo – è la principale destinataria della sua fatica poetica, sia in vita che in morte. Ma non è solo Nicea nel cuore o, meglio, nella penna di Ciro, ma anche tutta una lunga e divertente teoria di belle donne, come Mercuriola (di cui Ciro dà anche l’anagramma: “Amor riluce”) o come Lisetta dai begli occhi e Clori dal bel seno (due begli occhi ha Lisetta / et ha Clori un bel sen di vivi amori; / di Lisetta amo gli occhi e ‘l sen di Clori). Per loro il Nostro snocciola anàfore, chiasmi e antitesi con prodigalità, però senza mai perdere di lievità. Certo, ci sono gli augelletti che sen vanno cantando e i vaghi usignoli, ma Ciro ha un’abilità poetica che rende lieve anche il sortilegio retorico più complesso.

Diciamoci la verità: la poesia è sublime finzione, è un folle meccanismo autocoercitivo di ritmi e suoni dove il contenuto può passare in secondo piano, pur di fornire puro godimento. Certo, ci può essere l’impegno civile e morale come in Dante, ma comunque anche qui attraverso la finzione del viaggio. Si può mandare il proprio eroe sulla Luna o si possono immaginare mondi incantati, si può trasfigurare la realtà attraverso il ricordo o inventarne una nuova e verosimile. Si può usare un linguaggio altro, si possono sperimentare ritmi, suoni e assonanze: la poesia è lì a ingannarti piacevolmente. Certo, poi c’è la poesia del Novecento, ma è un’altra storia.

E se si può scrivere una poesia sul nulla, giocando colle parole e colle forme, si può naturalmente scriverne una su un episodio di vertigini, facendo paragoni col ruotare vertiginoso del mondo e sulla caducità della vita, oppure poetare sui propri calcoli renali giocando abilmente con calcolo, sasso, impietrire, indura, o con medusa (“venga Medusa che ‘l farem di sasso …”), incrociando e incatenando. Con una chiusa che però non sia banale, che ricordi che si può certamente giocare, ma non sempre si deve scherzare.
Mi sono trovato improvvisamente ad amare la poesia barocca.
Magari poi mi passa.

L’Autore è travagliato da mal di Pietra in età di anni 60.

D’Orfeo non è, né d’Anfion la cetra,
ch’io tratto, e pur dai sassi ella è seguita
Ogni sasso è uno strale, ond’ha fornita
La morte ai danni miei la sua faretra.

Da impietrito rigor nulla s’impietra,
Fatti i calcoli omai son della vita,
Già mi convien saldar la mia partita
E la dura sentenza è scritta in pietra.

Nova medusa d’impietrirmi ha cura
Men durevole allor, che più s’indura.
Per fastoso cammino a ciascun passo
Pavento inciampi, entro alla tomba oscura.

Reply

or to participate.