I fagioli di Bengasi

"A voi vi ci vorrebbe un po’ di guerra" (e qualche fagiolo)

Mio padre, da ragazzo, odiava i fagioli. Era del 1920 e viveva in un paese di campagna: i fagioli erano un alimento frequente, quasi quotidiano. All’epoca, poi, fare i capricci a tavola comportava automaticamente la reclusione in camera senza cena. O senza pranzo, a seconda dell’orario. Però a mio padre i fagioli proprio non piacevano, per cui affrontava stoicamente le punizioni e amen. Poi partì per la Libia: si era arruolato volontario nel Regio Corpo Aeronautico, anche se non immaginava che avrebbe passato gli anni da ventenne a Bengasi, sugli idrovolanti Caproni, a dare la caccia ai sommergibili inglesi. E certamente non immaginava che il vitto laggiù fosse composto quasi esclusivamente da fagioli e carne di cammello (“con due dita di sego sopra”, mi raccontava).

 Babbo parlava pochissimo della guerra, anzi non ne parlava affatto. Solo negli ultimi anni di vita, ormai novantenne e portato via dalla demenza, in un momento di lucidità mi confessò a mezza voce che aveva visto, laggiù, orrori che non era in grado di raccontare. E questo fu tutto.

Però dei fagioli raccontava. Anche perché gli idrovolanti erano pochi e spesso lui scendeva da un apparecchio e saliva su un altro. Per cui, quando l’equipaggio scendeva finalmente a terra, alla mensa c’erano rimasti solo i fagioli e la carne di cammello (“fredda” – specificava). E a lui i fagioli proprio non piacevano.

Babbo si era costruito una macchina fotografica con cui faceva fotografie in volo e che poi stampava per contatto. Ne conservo gelosamente qualcuna, di queste piccole foto: mio padre all’epoca era giovane e molto tonico, ma era magro magro. D’altronde quella in Libia era una vita terribile e non sapevi, quando decollavi con quegli aeroplani di legno e stoffa, se saresti ritornato dalla missione o saresti semplicemente scomparso in mare. Alla fine, complice la fame, babbo assaggiò i fagioli. Poi se li fece piacere. Pare che con la carne di cammello gli rimanesse sempre un problema, ma per fortuna, quando il 10 settembre 1943 tornò a fortunosamente a casa da Portorose in Istria (dove c’era una base di idrovolanti a cui, dopo la perdita dell’Africa, era stato assegnato), sfuggito ai tedeschi e ai titini, i cammelli erano solo un ricordo. E poi in Istria c’erano buon cibo e belle ragazze. E aveva ripreso peso. E aveva imparato ad apprezzare i fagioli.

Quando io e mio fratello facevamo le bizze a tavola, ogni tanto sospirava e poi, laconico, se ne usciva con: - A voi vi ci vorrebbe un po’ di guerra -. Era un uomo di poche parole. Mamma, che di parole ne aveva molte di più, in quei momenti si limitava ad annuire tristemente. Lei la guerra l’aveva vissuta all’Isola d’Elba, rifugiata in una casa di campagna per evitare i bombardamenti. Ogni tanto sulla spiaggetta sotto casa “stracquava” qualche balla di farina da una nave affondata, che veniva subito nascosta e poi divisa tra i vicini. Anche qualche cadavere, ovviamente. Ma era la guerra. La fame, a diciannove anni, dev’essere una cosa terribile. Per questo a casa nostra si mangiava bene (mamma era una cuoca bravissima) e si mangiava di tutto, magari piatti poveri che oggi fanno orrore a molti, specie a quelli cresciuti a patatine e McDonald e destinati alla farina di grilli.

Mi ricordo che una volta, anni fa, sono partito in auto da Trieste la mattina presto e mi sono fatto oltre cinquecento chilometri, di cui settanta di curve micidiali, per mettermi a tavola con i miei genitori e mio fratello. Il nostro amico macellaio, il pomeriggio del giorno prima, aveva portato una cartata di budellini d’agnello con i sanguinelli, e sapevo che quel sabato a pranzo, se non fossi partito, mi sarei perso una prelibatezza. Il giorno dopo sarei stato di guardia in ospedale, ovviamente a Trieste, per cui la mia fu una visita breve. Ma, onestamente, ne valse davvero la pena.

Reply

or to participate.