Gentile e la peste

Storie di medici d'altri tempi

Trovo sempre abbastanza inutile cercare idee “moderne” negli autori del passato: certamente esistono dei precursori di un’idea o di un’invenzione, ma nella maggior parte dei casi vanno cercati in periodi non troppo distanti da esse. Trovo invece molto interessante come alcuni studiosi, con pochissimi elementi a loro disposizione, abbiano elaborato teorie e pratiche che si avvicinano a quelle adottate dopo secoli di miglioramento scientifico, specialmente nel campo biologico e medico. Penso alle osservazioni genetiche di Mendel o alla vaccinazione antivaiolosa jenneriana, tanto per fare un esempio.

Mi è capitato recentemente, lavorando sui trattati trecenteschi sulla peste, di notare come un medico scienziato della metà del ‘300, cercando una teoria generale nei primi mesi dalla comparsa in Italia di un evento tanto disastroso quanto nuovo come la peste, non sia andato troppo lontano dal vero. Sto parlando di Gentile da Foligno, medico “universitario”, probabilmente allievo a Bologna di Taddeo Alderotti, uno dei medici più celebri della fine del ‘200, dal 1322 insegnante di medicina nello studio di Siena e poi chiamato ad insegnare a Perugia probabilmente dal 1335.

In sintesi, negli ultimi mesi del 1347 la peste, che non ritornava in Europa dal VI secolo, approda a Messina grazie a un convoglio mercantile genovese in fuga da Caffa, in Crimea, dove era scoppiata una grande morìa durante l’assedio mongolo alla città. Da Messina il contagio si sposta ai porti tirrenici settentrionali per poi propagarsi alle città dell’interno e successivamente a tutt’Europa. È la Morte Nera, quella descritta nel Decameron di Giovanni Boccaccio. Una malattia ad altissima mortalità, rapida e di fatto ignota ai medici che non ne trovano testimonianze nei testi dei medici antichi o arabi. Insomma una vera catastrofe.

Siamo probabilmente nell’aprile del 1348 e la peste sta infuriando nella Toscana meridionale, a Pisa, a Genova e si sta dirigendo verso Napoli. Le notizie che arrivano a Perugia, dove Gentile lavora e insegna, è che la gente parla con i malati e muore poco dopo. È la peste polmonare, ovvero la forma più letale del morbo, a trasmissione diretta dalle goccioline di saliva e quasi sempre a decorso fulminante. Per inciso, Gentile non parla mai né di bubboni né di petecchie, quindi evidentemente la trasmissione interumana, in quei mesi, non è mediata dal morso di ectoparassiti umani infetti (pidocchi o pulci) con interessamento dei linfonodi prossimi al punto di inoculazione del batterio (i bubboni), ma si trasmette per via aerea.

Gentile da Foligno è considerato, ai suoi tempi, uno dei medici più brillanti d’Italia: addirittura viene comparato al grande Avicenna, il medico e filosofo islamico il cui Canone della medicina rappresentava uno dei testi principali di studio universitario nelle facoltà mediche. Gentile viene evidentemente informato della situazione dai colleghi di Genova e della Toscana e si mette subito al lavoro: compone rapidamente un piccolo trattato pratico, un Consilium dove tenta di trovare un piano terapeutico o profilattico efficace, basandosi sui principi medici dell’epoca. Ma il problema, come abbiamo detto, era quello che la peste era una malattia sino ad allora completamente sconosciuta, per cui Gentile fa ipotesi e tenta di risolverle tramite la sua grande erudizione e la logica ferrea tipica del professore universitario dell’epoca. Il trattatello è un testo piuttosto conciso: due righe di teoria e subito dopo alcuni consigli sul regime alimentare dei sani e dei malati seguiti da numerose ricette, da calibrare a seconda delle caratteristiche costituzionali del soggetto.

La teoria medica dell’epoca era molto complessa e si basava su stratificazioni successive di osservazioni e commenti di medici e di teorici a partire dal V secolo avanti Cristo in poi che il medico “dotto” doveva conoscere anche nelle sue applicazioni pratiche a letto del malato o nella prevenzione della malattia nei clienti sani. Qui però non si trattava soltanto di applicare i principi generali della medicina di stampo galenico, ma innanzitutto di capire cosa fosse questo morbo nuovo, come si propagasse e quindi in qual modo difendersi, il tutto in modo logico ed efficace. Ovviamente stavano cominciando a girare, tra gli studiosi, le più diverse teorie, principalmente riconducibili o ad un cattivo influsso astrologico da parte della Grande Congiunzione di Giove con Saturno del 1335 oppure dall’azione di un’aria corrotta proveniente dall’Oriente di cui si fantasticava la causa - una stella caduta in Catai, un terremoto con esalazione di vapori dal profondo della terra e così via. Gentile evidentemente ne è a conoscenza, ma il tempo a disposizione è poco per seguire teorie causali così generali, per cui butta giù un capitoletto teorico per giustificare i successivi consigli terapeutici pratici:

Sembra chiaro che la terribile causa della morte […] è una putrefazione velenosa attorno alle parti del cuore e dei polmoni, da cui fuoriesce un vapore velenoso che è pericoloso per coloro che sono vicini e conversano [con il malato]; questa putrefazione, che sia causata degli aspetti celesti o dalla disposizione della terra e dell’acqua o meno, abbisogna dello stesso principio di cura, vale a dire il rafforzamento del cuore e delle membra principali e la distruzione della putrefazione velenosa, cioè impedire il suo aggravamento nei malati e la putrefazione [delle membra principali] nei sani [1].

Insomma a Gentile non importa la causa (astrologica o terrestre) della peste, ma la malattia in sé, diremmo oggi la sua eziopatologia, per cercare al più presto di arrivare ad una terapia. E subito intuisce il sistema di contagio: un vapore velenoso che parte dalla putrefazione delle parti attorno al cuore e del polmone e che, espirato, può essere pericoloso per le persone vicine. Perfetto. Qualcuno potrebbe dire che Gentile ha previsto la microbiologia della fine del XIX secolo. Nulla di tutto questo, ovviamente. Il medico studia ma soprattutto osserva. Purtroppo la sua proposta terapeutica contro la putrefazione velenosa si basa su rimedi poco o nulla efficaci, ovvero sulla somministrazione di composti di sostanze prevalentemente secche e incorruttibili, oltreché su un regime alimentare dove andavano evitati cibi di natura fredda e umida, come ad esempio i pesci, o le insalate crude condite con l’aceto.

Non dobbiamo sorridere: dovremo infatti aspettare la scoperta delle tetracicline, nel XX secolo avanzato, per trovare una terapia efficace per la peste. Certamente, nelle ondate successive del morbo, che infurierà con virulenza discontinua sino al 1815, si imparerà perlomeno a prevenire i danni più gravi, talora con risultati eccellenti. Ma era il 1348 e il morbo infuriava da pochi mesi. Non ce l’abbiamo fatta nei primi mesi del 2020 con il Covid, oggi che abbiamo una medicina scientifica efficace, immaginiamoci quasi settecento anni fa con un morbo che nelle città raggiungeva oltre il 60 per cento di mortalità.

Poi la peste, inesorabilmente, arriva a Perugia. Gentile evidentemente sperimenta i suoi rimedi sui malati e su di sé, senza risparmiarsi e soprattutto senza tenere conto del consiglio del grande Galeno su cosa fare nel caso di un’epidemia troppo grave per poter essere gestita, ovvero fuggire alla svelta e ritornare dopo che tutto è passato: si ammala di peste i primi di giugno e muore in meno di una settimana, accudito e vegliato dal figlio, che ci ha lasciato una testimonianza commovente:

Dopo ciò, verso il mese di giugno, il reverendo Maestro fece una ricetta per queste pillole, di cui ne si devono prendere tre volte alla settimana... E poi Gentile si ammalò per l'eccessiva richiesta dei malati (ex nimia requisitione infirmorum), e questo fu il 13 giugno: visse sei giorni e morì. Riposi in pace l'anima sua e ciò avvenne nel 1348. E io, Francesco da Foligno, fui presente alla sua malattia e non lo lasciai mai solo fino alla sua morte, e fu sepolto a Foligno nella chiesa degli Eremitani [2].

Questo epilogo mi sembra indicativo - ricordando quanti Colleghi hanno perso la vita durante l’ultima pandemia che per certi versi è stata simile come dinamiche mediche e sociali al morbo del lontano 1348 - non tanto per la modernità di Gentile, quanto per il suo senso etico della professione medica. Il suo (probabile) maestro, Taddeo Alderotti, ci viene descritto come un medico capace ma rapace, cioè vergognosamente esoso per i suoi compensi professionali. Gentile probabilmente imparò da Taddeo l’ars ma non la rapacitas. Gentile non si ammalò ex nimia requisitione infirmorum ma per una semplice questione statistica: più malati visiti, nonostante le precauzioni, più rischi di contrarre la malattia. E lui, date le premesse teoriche del suo Consilium, ne doveva essere più che consapevole.

Mi immagino che Gentile sia morto in pace: certamente non come don Ferrante, il negazionista manzoniano, che dichiarando l’inefficacia della medicina perché convinto di non poter nulla contro il potere virtuale dei corpi celesti, morì di peste come un eroe del Metastasio, “pigliandosela con le stelle”.

 [1]  Traduzione mia dal ms. vat. Lat 1043 pt.2_0347r
 [2] Traduzione mia. Testo latino in: Karl Sudhoff, Pestschriften aus des ersten 150 Jahren nach der Epidemie des „schwarzen Todes“ 1348. III. Aus Niederdeutschland, Frankreich und England, Archiv für Geschichte der Medizin , Juni 1911, Bd. 5, H. 1/2 (Juni 1911), p. 87
 

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