Fumare fa bene

Racconto nero

Alvaro adocchiò una panchina libera, si guardò intorno e vi si diresse a passo spedito. Non si sa mai, pensò. Le panchine del parco, a quell'ora del mattino, erano ancora in gran parte occupate da persone di vario colore che le usavano come giaciglio. Ormai i barboni, quelli coperti dai cartoni, o erano morti tutti o erano emigrati o fatti emigrare verso aree meno comode. Alvaro amava il parco a quell'ora del mattino perché gli ricordava il tempo di quando era ancora studente: quel parco era stata per anni la sua boccata d'aria mattutina prima di correre a lezione. Mezz'ora seduto su una panchina, a sognare e a guardare le ragazze del liceo che sfrecciavano lungo i vialetti per non fare tardi a scuola.

Le sette e un quarto. Tirava una brezza un po' sostenuta ma non faceva freddo e poi in fondo erano i primi di ottobre. Da quando era in pensione, dopo tanti anni di lavoro come professore universitario, Alvaro veniva al parco tutte le mattine verso le sette, a parte i giorni di pioggia. Erano ormai passati due mesi da quando gli era stata recapitata una lettera dell'Amministrazione che gli comunicava che dal giorno tot il rapporto di lavoro con l'Università sarebbe cessato. Quarantacinque anni di lavoro liquidato con una lettera assolutamente impersonale. Non c'erano nemmeno i "cordiali saluti". Meno male che i colleghi avevano organizzato una piccola festa in suo onore. Ma nulla di ufficiale, ovviamente. Arrivò alla panchina, sospirò e si mise comodo guardandosi intorno. Alvaro era un osservatore piuttosto acuto e poi veniva spesso nel parco e quindi conosceva i suoi frequentatori abituali, come quel nigeriano alto e grosso che non rispondeva al saluto se non con un cenno degli occhi e se ne stava vicino al boschetto della fontana. Vendeva eroina e coca e quella era l'ora migliore per lo spaccio mattutino. Studenti di passaggio, quelli tosti. Per quelli meno ardimentosi c’era il fumo, erba o hashish, ma bisognava rivolgersi ai siriani che stavano vicino al laghetto dei cigni, fuori dalla vista di Alvaro.

Alvaro fece un respiro profondo. L'aria sapeva di cattivo, un misto tra gas di scarico e odori corporali. D'altronde la strada principale era proprio dietro alla panchina, seppure nascosta da un'alta siepe che il guardo esclude, ma il rumore delle frenate e qualche imprecazione a voce troppo alta rompevano l'incanto di un eventuale infinito dietro di essa. Anche no, pensò Alvaro, in fondo anche l'inferno è infinito nel tempo e nello spazio. L'odore di grasso rancido misto ad altri aromi pungenti era fornito dal gruppo di mediorientali (o erano del sud asiatico?) che dormivano per terra, poco distanti da lui. Si erano fatti dei giacigli di frasche e dormivano beati. - Probabilmente non si lavano da giorni. Poveracci - pensò Alvaro - magari sono arrivati da poco e non si sono ancora integrati nel sistema -. Passò una ragazzina con i libri sotto braccio, a passo veloce. Beh, il parco non era particolarmente pericoloso a quell'ora e poi c'era sempre qualcuno della polizia urbana che ogni tanto passava. Facendo finta di non vedere, d'accordo: ma comunque la sua presenza rappresentava un segnale forte di non esagerare.

Ad Alvaro, che ormai era in relax, venne voglia di fumarsi una sigaretta. Il pacchetto e l’accendino erano nella tasca destra e lui li poteva percepire chiaramente dalla lieve pressione sulla coscia. Peccato che nel parco fosse proibito fumare. Alvaro sorrise. Tra l’altro lui non poteva fumare a casa, come d’altronde non aveva mai fatto per rispetto della moglie, Giuditta, dedita a sessantatre anni a salvare la natura comprando alimenti biologici al supermercato e da sempre contraria al fumo e alle sue multinazionali con la cieca determinazione di una beghina.

Passò un ragazzone con lo zaino: avrà avuto sì e no diciassette anni. Guardò di sfuggita il nigeriano, poi lo scambio avvenne in un battere di ciglia. Nessuna deviazione dalla traiettoria, nessun impatto apparente. L’odore di lezzo dei corpi addormentati era abbastanza fastidioso, ma d’altronde il parco era il parco. Decise che in fondo accendersi una sigaretta in quella situazione sarebbe stata una violazione minore della legge, dato il contesto. Raggiunse il pacchetto, lo tirò fuori dalla tasca ed estrasse una sigaretta. Rimise in tasca il pacchetto, e con la stessa mano cercò l’accendino. Fu distratto per un attimo dal passaggio di un grosso autobus che lanciò, scalando la marcia, una folata di gas verso la panchina. Alvaro si accese la sigaretta e si gustò la prima, lunga boccata di fumo. Adesso era davvero in relax e anche il parco e i suoi personaggi erano in fondo un universo naturale, una strana ma pacifica armonia del Creato. Potenza degli alcaloidi forse o del gesto rituale: sta di fatto che per un attimo Alvaro gustò una piccola felicità fatta di nulla se non di un po’ di fumo e di tranquillità.

«Non si fuma nel parco. Si vergogni!»

Alvaro si riscosse. La voce era acida e ostile. Voltò gli occhi di lato e la vide. Si girò sorpreso mentre la donna lo guardava con volto severo. Era forse di poco più vecchia di lui ed era ben vestita ed anche truccata con gusto. I capelli, biondo tinto, erano un po’ crespi e corti ma ben pettinati. Aveva al collo un foulard di seta annodato di lato e, anche se non era molto alta (e anche troppo magra rispetto ai canoni di bellezza muliebre di Alvaro), doveva essere stata e in fondo lo era ancora, una bella donna. Ostile, forse petulante, ma bella.

Adesso la donna stava in silenzio di fronte ad Alvaro, fissandolo con ostentata disapprovazione. Le sue labbra erano dure e tirate. Passarono cinque interminabili secondi. Alvaro si piazzò la cicca all’angolo della bocca, si alzò e rapidamente artigliò con la mano destra la gola della donna. Strinse con le sue mani da ingegnere meccanico con quanta forza aveva mentre con la mano sinistra spingeva il collo della donna verso di lui. La donna adesso aveva gli occhi spalancati dalla sorpresa, il terrore e la fame d’aria. Alvaro sentì le cartilagini che si rompevano scricchiolando in maniera sinistra. La donna ebbe un sussulto e Alvaro la allontanò da lui quando ebbe un flebile, agonizzante conato di vomito. Cadde a terra afflosciandosi come un sacco vuoto. Alvaro era ancora come in trance, con la sigaretta che gli pendeva in modo un po’ ridicolo dall’angolo della bocca. Passarono ancora cinque secondi mentre nel parco era calato il silenzio, o perlomeno così pareva ad a Alvaro. Il gruppo di mediorientali (o erano del sudest asiatico?) si era dileguato con miracolosa rapidità, senza far rumore. Il nigeriano invece era sempre lì e stava osservando distrattamente la scena.

Alvaro lo guardò e gli fece un cenno. Tirò fuori dalla tasca il portafogli, contò duecento euro e li mostrò al nigeriano che annuì con un cenno dello sguardo. Un attimo dopo la donna era scomparsa dietro le fronde del boschetto. Si accorse che stava ancora tremando. Si rimise a sedere sulla panchina. Il tremito stava passando. Si accorse che la sigaretta si era spenta. Tirò fuori dalla tasca sinistra un piccolo portacenere portatile, ci schiacciò il mozzicone, lo richiuse e lo rimise in tasca. Fece un lungo sospiro, poi si accese un’altra sigaretta. Un’altro autobus passò rombando e scaricando nuovo gas nel parco mentre Alvaro guardava il cielo azzurro fumando e pensando che in fondo la vita potrebbe essere un dono apprezzabile se saputa gustare per quella che è.

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