Femmina da conio

Quando la lingua si fa specchio delle nostre ipocrisie.

Ieri, mentre stavo dormicchiando sul Frecciarossa tra Firenze e Mestre, mi ha svegliato un pensiero un po’ stupido ma divertente.

 Premetto che ho seguito con un certo divertito interesse le giravolte di alcun* paladin* dell’uguaglianza di genere sull’infelicissima uscita di Landini sull’attuale Presidente del Consiglio, se non altro perché in questo caso uno o è somaro o è in malafede, e quindi c’è poco da scegliere, restando semplicemente nel campo della nostra lingua nazionale.

 Sto parlando, ovviamente, del termine “cortigiana”, parola forse oggi percepita come un po’ troppo colta per essere usata nei social o in televisione, ma dal significato decisamente inequivocabile. Certo, se Rigoletto canta “Cortigiani, vil razza dannata” e ha davanti fior di nobiltà come il conte di Ceprano, oggi che si dice sindaca e avvocata si potrebbe anche dire che cortigiana non è altro che cortigiano al femminile — con buona pace del Tommaseo e di altri pedanti.

 Tra l’altro, l’etimo è lo stesso e quindi non siamo nel campo della falsa alternanza di genere come, ad esempio, bilancio/bilancia o botto/botta. Ma davvero?

 Cortigiano è un termine rinascimentale che indica l’uomo di corte, come ci insegna Baldassare Castiglione, che peraltro è l’unico a usare il termine al femminile con lo stesso significato di “nobile persona di corte”. Tuttavia il Casiglione preferisce ricorrere all’espressione “donna di palazzo” per indicare la figura ideale di donna aggraziata ed elegante, ma comunque casta e virtuosa. D’altronde, già nel Cinquecento, il termine cortigiana era riservato alle meretrici di “alto bordo”, e additittura Pietro Aretino, nei suoi Ragionamenti, usa i termini cortigiana e puttana tout court come sinonimi:


Nanna
Come non vuoi tu che io sospiri? Ritrovandomi Pippa mia figliuola di sedici anni e volendone pigliar partito, chi mi dice «Fàlla suora, che, oltre che risparagnerai le tre parti della dote, aggiungerai una santa al calendario»; altri dice «Dàlle marito, che ad ogni modo tu sei sì ricca, che non ti accorgerai che ti scemi nulla»; alcuno mi conforta a farla cortigiana di primo volo, con dire «Il mondo è guasto; e quando fosse bene acconcio, facendola cortigiana, di subito la fai una signora, e con quello che tu hai, e con ciò che ella si guadagnerà, tosto diventerà una reina»: di sorte che io son fuora di me.
[…]

Antonia
Dimmi, non sei tu stata monica?

Nanna
Sì.

Antonia
Non hai tu avuto marito?

Nanna
Hollo avuto.

Antonia
Non fosti tu cortigiana?

Nanna
Fui e sono.

Antonia
Adunque, dei tre stati non ti basta l’animo di scegliere il migliore?

Nanna
Madonna no.

Antonia
Perché no?

Nanna
Perché le moniche, le maritate e le puttane oggidì vivono con una altra vita che non vivevano già.

(Ragionamento della Nanna e della Antonia, 1534)

 Tra l’altro, per chi volesse approfondire l’argomento, consiglio un bellissimo saggio di Marzio Barbagli, Comprare piacere, pubblicato da Il Mulino.

Ma torniamo al pensiero che mi ha svegliato sul treno. La mente, tra il sonno e la veglia, fa spesso associazioni curiose e in questo caso ha tirato fuori, da qualche zona della mia corteccia parietale dedicata alle reminiscenze dantesche, un frammento del XVIII canto dell’Inferno, quello delle Malebolge: luogo dove lo spazio stesso si fa strumento di pena, con le sue rocce e i suoi ponti, i laghi di sterco dove si agitano i dannati torturati da diavoli muniti di fruste e altri “ordigni” di dolore.

È qui che il Poeta incontra Venedico Caccianemico, nobile bolognese di parte guelfa, sfruttatore delle donne della sua famiglia per accrescere il proprio potere personale, offrendole non solo per matrimoni vantaggiosi ma anche per “fare la voglia” a chi le avesse desiderate occasionalmente. Questo almeno è il profilo morale che ne dà Dante, che non perde occasione per sottolineare quanti bolognesi si trovino a soffrire in quel luogo di ruffiani. Ma Caccianemico è interrotto da una scudisciata di un demonio che lo caccia con parole di scherno:

 I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.
     E non pur io qui piango bolognese;
anzi n’è questo luogo tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese
     a dicer ’sipa’ tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno».
     Così parlando il percosse un demonio
de la sua scuriada, e disse: «Via,
ruffian! qui non son femmine da conio».

 Questo termine, “femmine da conio”, ha fatto scorrere molto inchiostro fin dai primi commentatori. Tutti concordano sul senso della metafora (“qui non ci sono donne da prostituire”), ma meno sul termine conio: forse metonimia di moneta, ma fors’anche di significato palesemente osceno — visto che il conio “si batte”. In ogni caso, “femmina da conio” non è certo un complimento, e fa più o meno da paio con il termine “cortigiana”.

Il pensiero, alla fine, è questo: usando più o meno il metodo dei difensori di Landini, potremmo forse dire che l’Italia è una femmina da conio? In fondo, la sua immagine è usata per coniare monete e medaglie, quindi…

 Buona giornata.

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