Faccia e volto

Antropologia di un biglietto da visita

Come probabilmente molti di voi sapranno, io ricostruisco volti. Detta così sembra materia da chirurghi plastici, cosa che assolutamente non è: in effetti il termine “ricostruire” - che è più facilmente comprensibile di “approssimare” - è inesatto. Io, col mio lavoro, cerco di approssimare le fattezze della faccia di uno scomparso – da poco o da molto tempo – a partire dal suo scheletro facciale. Insomma, per dirla in soldoni, prendo l’osso, ci rimetto sopra la ciccia, o meglio un qualcosa di plastico che la rappresenti, e alla fine ottengo una forma che dovrebbe somigliare alla faccia del proprietario o della proprietaria di quell’osso. Non è una operazione facile, anzi è decisamente complicata, piena di insidie e variabili di cui tener conto, ma alla fine il risultato ottenuto può essere utile per qualcosa, tipo riconoscere dei resti umani ignoti o ricostruire un volto del passato, che so: Vercingetorige. Ammesso che non sia stato cremato, cosa molto probabile, e ammesso inoltre che troviate la sua tomba con su scritto sopra “Vercingetorix” o una scritta simile, ovviamente in celtico. E che abbia il cranio. Non è così scontato. Da secoli si rubano i crani delle persone geniali o famose per studio o per ottenere un macabro souvenir: quando qualche anno fa, in occasione del centenario, aprirono la tomba di Francesco Petrarca, si accorsero che qualcuno aveva rubato la testa del Poeta e l’aveva sostituita con un altro cranio. Come fecero ad accorgersene? Facile. Era un cranio di una donna. Come si può intuire, qui siamo già a due scheletri che non hanno la testa a posto loro malgrado, ma il loro numero è più grande di quanto si pensi: uno studente di medicina viennese non lasciò quasi neanche raffreddare il cadavere di Haydn che lo decapitò portando la testa al suo insegnante per cercarvi le stimmate anatomiche del genio musicale. La testa di Guglielmo Oberdan fece la stessa fine, per scopi diversi, e magari il suo cranio è lì a prender polvere, anonimo, in qualche ripostiglio di museo tra Trieste e Vienna. Gli inglesi lo negano, ma un’analisi col georadar sembrerebbe indicare che qualcuno si sia allegramente fregato la testa di William Shakespeare. Fortunatamente i frati di Ravenna hanno conservato gelosamente nei secoli le ossa di Dante, per cui la parte principale della testa si è conservata, anche se quei fraticelli, nei vari spostamenti delle ossa del Sommo allo scopo di salvarle dai fiorentini, dal Papa o dai tedeschi, si sono persi la mandibola. Fare la testa è difficile, quindi, sia da vivi che da morti. Sarà perché là risiedono il cervello e quattro dei cinque sensi principali: per questo la testa è la sede della virtus animalis, secondo gli antichi, ovvero la sede dell’anima fisica. Ma soprattutto perché sul davanti c’è un’unità anatomico-funzionale complessa che si chiama faccia e che è  la base della nostra vita di relazione. Una struttura che sappiamo di avere ma che non vediamo se non per mezzo di uno specchio o di una fotografia: ci possiamo guardare i piedi o le mani ma non la faccia. È una cosa curiosa: prima di avere inventato lo specchio l’uomo ignorava le fattezze della propria faccia e si doveva fidare delle notizie che gli potevano fornire gli altri. Certo: si poteva specchiare nell’acqua, ma avrebbe visto solo una strana e fluida immagine di un volto, ignota e pericolosa: chiedetelo a Narciso, se doveste avere dei dubbi su questo. Di fatto, ignorando il proprio volto, l’uomo lo poteva percepire solamente riflesso nei volti della propria comunità: ad esempio, ancora all’inizio degli anni settanta del secolo passato, in un villaggio della Tunisia tutti gli abitanti erano in grado di riconoscere i propri concittadini su una fotografia di gruppo, ma non erano in grado di riconoscere loro stessi.

Avrete notato che ho usato i termini faccia  e  volto, ma non come sinonimi. È questo il mio problema principale, quando ho davanti a me un cranio (fa tanto Amleto nel cimitero, lo so): ricostruirò – o meglio approssimerò -  una faccia o un volto?

Il discorso è molto complesso, e non vorrei farla troppo lunga: magari ne parliamo più estesamente un’altra volta, ma sono arrivato alla conclusione che volente o nolente, alla fine, più che una faccia ottengo sempre un  volto. Che voglio dire? Condividerò una riflessione che sto strutturando da molto tempo, sperando che sia tanto interessante per voi quanto lo è per me.

Innanzitutto bisogna tenere conto che siamo in Italia e abbiamo un retroterra culturale e linguistico (finché dura) da fare invidia ai nostri vicini, per cui tendiamo a sottilizzare: fossimo greci, o inglesi o serbi , insomma se fossimo non-italiani, non avremmo di che sottilizzare, almeno dal punto di vista linguistico. Vedremo perché, ma qui mi interessa sottolineare che il riflesso linguistico, ovvero il potenziale dualismo faccia / volto (e viso, ma che poi si differenzia ben poco da volto anche da un punto di vista etimologico) è espressione di un dualismo antropologico profondo e non è semplicemente un gioco di parole.

Nelle varie lingue moderne esiste un solo termine per indicare la faccia (face, visage, cara, лице ecc.) tranne che in Italia, terra che ha continuato a parlare latino volgare per gran parte dell’alto medioevo. In effetti in latino e in italiano i termini principali che individuano l’area anatomica della testa di nostro interesse sono due: facies / faccia e vultus / volto, etimologicamente differenti (facies --> facere, fare mentre vultus --> videre, vedere). Come abbiamo già detto, questi due termini non sono esattamente sinonimi dimostrando come esista un dualismo dell’entità “faccia” da cui è difficile prescindere.

Secondo Isidoro di Siviglia, vissuto a cavallo tra V e VI secolo, il termine facies deriva dal sostantivo effigie, che ha diverse accezioni, ma tutte legate all’immagine:

Si dice che il volto provenga dall'immagine. Perché lì c'è la figura intera dell'uomo e la conoscenza di ogni persona.  Ma il volto è chiamato così, perché attraverso di esso si manifesta la volontà dell'anima. Infatti, secondo la volontà, essa si trasforma in vari movimenti e quindi entrambi differiscono tra loro. Per volto si intende semplicemente l'aspetto naturale di ogni persona; ma il tuo aspetto rivela la qualità della tua anima. 

 Il Du Cange, nel Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, pubblicato nel 1678, riporta il verbo effigiare col significato di dipingere e riporta un passo interessante di Sidonio Apollinare, di un secolo e mezzo antecedente a Isidoro, il quale, parlando di Trittolemo a cui i Greci “consacrarono templi, formarono (formavit) statue e effigiarono (effigiavit) immagini”, mostra che le statue si formano mentre le immagini si effigiano. Quindi la faccia è un’immagine, anzi è l’immagine che ci fa riconoscere (cognitio) una persona. Diversa cosa, secondo Isidoro, è il vultus, che muta a seconda dei moti dell’animo: se la faccia mostra l’aspetto naturale, il volto manifesta la qualità dell’animo. Tra l’altro Isidoro ci informa che il termine vultus è anche usato appropriatamente per riferirsi alla superficie mutevole del cielo e del mare, poiché i loro movimenti dipendono anche dal soffio dei venti; ed anche il volto del cielo (coeli vultus) cambia da luminoso a scuro e da sereno a nuvoloso, così come cambia il volto (vultus) degli uomini secondo il mutamentodei loro pensieri. In sostanza, mentre facies esprime quella parte della testa dell’uomo situata anteriormente e dove hanno sede tre dei cinque organi di senso (vista, olfatto e gusto), costituita da una struttura osteo-cartilaginea rivestita di parti molli, cioè la faccia fisica, il termine vultus rimanda all’aspetto esteriore e al mostrarsi, nonché ad une esteriorità come riflesso della realtà interiore, del carattere dell’individuo.

Questo dualismo del volto condiziona quotidianamente la nostra vita di relazione perché di fronte ad una facies noi vediamo anche il vultus, attraverso una serie di meccanismi complessi di percezione ed elaborazione della forma che abbiamo sì ereditato filogeneticamente dagli altri primati, ma che la nuova specie Homo ha perfezionato attraverso l’esperienza singolare della stazione eretta e della nascita di una nuova struttura complessa che non era più un muso, rivolto spesso a terra per bisogni alimentari e dotato di sistemi comunicativi rudimentali (il digrignare i denti, ad esempio) ma una facies/vultus posta in alto rispetto al resto del corpo, con occhi vicini posizionati ai due lati del naso e con una sclera bianca per esaltare la percezione, da parte dell’altro, della motilità dell’iride e inoltre con un sistema muscolare estremamente mobile dedicato quasi esclusivamente alla mimica.

Una facies/vultus capace di essere al contempo una struttura funzionale ma anche un biglietto di presentazione verso gli altri e non solamente dal punto di vista dell’identità personale. Insomma, una giustapposizione che non può essere semplificata, perché già nella stessa fisiologia del riconoscimento e della memorizzazione delle facce esistono delle vie nervose complesse di cui alcune, probabilmente, molto antiche filogeneticamente e che ci permettono non solo di leggere una facies, ma anche di interpretarne le caratteristiche di vultus, decidendo dopo poco più di trenta millisecondi se quella è tua madre, un tuo nemico da cui fuggire a gambe levate o se puoi arrenderti, fulminato da un amore a prima vista o da una beatifica visio. Senza contare inoltre, che l’uomo, da buon animale culturale, ha elaborato altri sistemi, ancora più complessi, per leggere il volto ed il rapporto facies / vultus attraverso una discussione filosofica e scientifica che probabilmente data all’inizio dell’esperienza sociale umana: la fisiognomica.

Della fisiognomica, pseudoscienza vituperata ma mai defunta, vorrei parlarvi un’altra volta, però spero di avere stimolato qualche riflessione. Domandatevi a questo punto perché si dice “perdere la faccia” e non “perdere il volto” oppure “quello lì ha la faccia (e non il volto) come il sedere”. Oppure “alla faccia tua!” e non “al volto tuo!”. E se le lagrime che rigano il volto sono segno di dolore o forte emozione, le lagrime che rigano la faccia sono degne della veggente di Trivignano…

A questo punto se vi dicessi che in ebraico, lingua molto antica, il termine che indica la faccia / volto è declinabile solo in plurale, ovvero in ebraico non esiste la faccia (o il volto) ma ne esistono molteplici perché molteplici sono le sue variazioni nel tempo, vi complicherei troppo le idee?

Forse a questo punto vi sarete resi conto – ma già lo sapevate benissimo -  che non esiste il vero volto, neanche fisico, ovvero la vera faccia, ma che ambedue, e insieme, sono l’espressione di un istante, di un moto d’animo. Quindi la loro riproduzione che non sia fissata in una fotogramma istantaneo (come nel selfie, che è la riproduzione di un’espressione, quindi di quella variante del volto in quel momento) è solo approssimabile, come avviene nel ritratto o, appunto, nella approssimazione facciale a scopi forensi.

A presto!

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