Chi vuol d'una virtù venire in loda

conviengli prima giugner a la proda

Giornate uggiose di pioggia. La lettura dei giornali non aiuta, se non come studio antropologico sui politici e i giornalisti, sui loro rapporti e sui loro curiosi comportamenti che, ahimè, condizionano il nostro vivere economico e sociale. Problema certamente non nuovo, anzi antichissimo: l’altro giorno ero in teatro a vedere “Le supplici” di Euripide, in un allestimento niente male, e la riflessione sulla democrazia tra Teseo e l’araldo di Tebe poteva essere messa in bocca a molti personaggi politici di oggi. Certo, non a tutti, visto la confusione di idee che regna, ma per fortuna c’è in giro anche gente valida. Gente virtuosa. Oggi questo aggettivo “virtuoso” ha diverse sfumature e non sempre positive: ci sono comportamenti “virtuosi” che grondano di ipocrisia e poi se chiedete a bruciapelo cosa sia la virtù, avrete nella maggior parte dei casi, perlomeno all’inizio, lunghi silenzi imbarazzati.

Quando studiavamo catechismo, da piccini, ci insegnavano le virtù teologali, ovvero fede speranza e carità e quelle cardinali, ovvero la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza. Sette in tutto come le trombe dell’Apocalisse o i sette contro Tebe. Numerologia arcaica, ovviamente. Sette virtù che facciamo fatica a reperire (e non dico tutte assieme!) nel nostro mondo. Ma questa è un’altra storia: quello che mi interessa in questo momento è che esistono anche altre virtù, meno teologiche ma più umane, come ad esempio il saper creare cose che siano di utilità e diletto per l’uomo. Se per Machiavelli esiste una virtù dell’armi (nel mantenere la pace) o per Boccaccio una virtù di medicine (per guarire gli ammalati), Leopardi ci parla della naturale virtù immaginativa, quella nobile virtù che ci fa comporre versi, scrivere canzoni o sinfonie oppure, come raccontava Giosuè Carducci ai cipressetti di Bolgheri, quella conoscenza che ci fa crescere, passare di stato: “E so legger di greco e di latino, / e scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù: / non son più, cipressetti, un birichino, / e sassi in specie non ne tiro più”. Insomma virtù umane, positive e lodevoli, quando ci sono e non sono solo millantate.

Quando frequentavo la musica medievale, anni fa, avevamo preparato col nostro gruppo, l’Ars Mensurabilis, un concerto a programma che si intitolava “Francesco Landini e il suo tempo”: eravamo alla fine degli anni ’70 ed era abbastanza una novità. Ci presentavamo sul palco con un attore che leggeva i testi dei madrigali, delle ballate e delle cacce che poi eseguivamo: fu un buon successo sia perché avevamo con noi dei bravi attori (mi ricordo che al Teatro Sannazzaro di Napoli ci presentammo con Raffaele Giangrande) sia perché le musiche erano bellissime, perlopiù di Landini ma anche di Jacopo da Bologna o Gherardello. Insomma la créme della musica italiana del tardo Trecento. Personalmente amavo due composizioni di Landini: Gran piant’agli occhi, vero capolavoro di rapporti tra testo e armonie interne e un madrigale a tre testi, Musica son / Già furon / Ciascun vuole, che dovette essere molto famoso ai suoi tempi, tanto che apre la sezione dedicata alle musiche del nostro compositore nel celebre Codice Squarcialupi, con tanto di miniatura di lui con in braccio il suo strumento favorito: l’organo. Un madrigale con un testo interessante, dove si parla di virtù e di come raggiungere la virtù musicale, ma non solo. A quei tempi questo madrigale mi piaceva molto perché mi serviva per monito, anche se poi alla fine non so se mi sia servito a molto. Il testo è questo:

Musica son che mi dolgo, piangendo,
veder gli effetti mie dolci e perfetti
lasciar per frottol’ i vaghi intelletti.
Perché ignoranza e vizio ogn'uom costuma:
lasciasi 'l buon e pigliasi la schiuma.

 Ciascun vuole narrar musical note
e compor madrial, cacce, ballate
tenendo ognor le sue autenticate.
Chi vuol d'una virtù venire in loda
conviengli prima giugner a la proda.

 Gia furon le dolcezze mie pregiate
da cavalier, baroni e gran signori:
or sono 'mbastarditi e gentil cori.
Ma i' Musica sol non mi lamento
ch'ancor l'altre virtù lasciate sento.

 Si direbbe che gli intellettuali si lamentino allo stesso modo da sempre e che i gentil cori non siano mai come quelli di una volta. Ed è vero. Ma quello che mi faceva pensare era la seconda stanza: oggi tutti vogliono scrivere e scrivere e mettere il loro nome d’autore a qualunque cosa abbia partorito la loro virtù immaginativa (per dirla con Leopardi). Ma ti devi ben ricordare che se vuoi acquisire lodi per questo, per la tua virtù, devi prima “giungere alla proda”. Che a senso è un’affermazione piuttosto banale. Ma che a ben vedere non lo è. Una settantina d’anni prima, Dante aveva messo in bocca al suo maestro, Brunetto Latini, una predizione sul suo futuro che ci aiuta a capire cosa sia la proda, che vuol dire riva ma soprattutto approdo (Inf, XV , 55-57):

Ed elli a me: Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella 

Si può discutere sul significato della stella e della gloria dantesca, ma il senso dell’approdo mi sembra lo stesso: devi seguire e coltivare con cura la tua virtù per non fallirlo. Per Dante l’approdo è un porto glorioso, per Francesco Landini è probabilmente un porto laudabile, ma non credo che ciò faccia una grande differenza. E poi ho sempre trovato una somiglianza di fondo tra i due compaesani, Dante e Francesco: due intellettuali, grandi a loro modo e per il loro tempo. Dante ovviamente ebbe più spazi di manovra letteraria e politica di Francesco, che era rimasto cieco in tenerissima età per le complicanze di un vaiolo al quale era sopravvissuto e quindi era stato avviato ad un mestiere per ciechi, come fare musica. In breve il piccolo Francesco divenne non solo un grande musicista, rivoluzionando il genere della ballata del suo tempo, ma fu anche un progettatore e accordatore di organi che ovviamente suonava “con virtù”, oltreché un filosofo occamista ben inserito nell’ambiente intellettuale fiorentino. Giovanni Gherardi, nel suo Paradiso degli Alberti, ci ricorda che

Fioriva ancora in que’ tempo Francesco delli Organi, musico teorico e pratico, mirabil cosa a ridire, il quale, cieco quasi a natività, si mostrò di tanto intelletto divino che in ogni parte più astratta mostrava le sottilissime proporzioni de’ suoi musicabili numeri, e quelle con tanta dolcezza col suo organo praticava, che cosa non credibile pure a udilla.
[…] elli con ogni artista e filosofo gìo disputando non tanto della sua musica, ma in tutte l’arti liberali, perché di tutte quelle in buona parte erudito sì n’era.

Possiamo ben dire, quindi, che Francesco, come Dante, alla proda ci fosse giunto. Ma la proda, il porto, è davvero una conclusione? O forse il giungere al porto non è che una condizione necessaria, ma non sufficiente, per iniziare un vero percorso di virtù? E poi, quante volte, nella vita, abbiamo raggiunto un porto per poi renderci conto che esistono altri porti da esplorare e che non esiste una sola virtù e che comunque una sola non ti basta perché non può finire il viaggio, non lo puoi permettere? E allora via, come Ulisse, sforzandoti di seguire la tua stella rischiando, ogni volta, che il mare sopra di te si chiuda.

Continua a piovere, fuori, e qui al calduccio il mio ragionamento si ferma qui, senza una vera soluzione.  Sono diversi anni che ci provo, ma faccio sempre naufragio. Non sono abbastanza vertudioso: me ne devo fare una ragione.

 

 

 

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