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Chaere non est Ave!
Appunti sulla lingua medica e non solo.

A Roma, quelli che volevano sembrare “alla moda” ostentavano una presunta raffinatezza culturale e si salutavano in greco: Chaere! Marziale, come è noto, non li risparmiava, prendendo di mira quel vezzo snobistico che faceva del greco non uno strumento di cultura, ma un marchio di distinzione del tutto inappropriato per la vita quotidiana romana. Provo a tradurre l’epigrmma:
Chaere, Lupe, dicis, et aluta est fusa, et putei non sicciores uno.
miraris, quotiens me, Lupe, videris, dicere "ave" mihi, "vale" mecum, sed "chaere" cum?
“Chaere”, dici, Lupo; (e con quel tuo “ch” spruzzi a tal punto) che il cuoio ne è tutto inzuppato, e i pozzi non diventano più asciutti neppure d’un punto.
E poi ti stupisci se, ogni volta che ti vedo, io mi limito a dirti “ave”, e nel congedarmi “vale”?
Ma quel tuo “chaere”… con chi dovrei dirlo?
Eppure il greco, all’epoca, era davvero la lingua della cultura, e in particolare quella della medicina “colta”. I medici greci erano presenti a Roma fin dal III secolo a.C. e avevano finito per egemonizzare il mercato della salute, soprattutto per i ceti più abbienti. Scrivevano in greco, pensavano in greco, e parlavano in greco anche quando il pubblico non sempre li seguiva. Persino Celso, quando nel I secolo d.C. si mette a comporre la sua poderosa enciclopedia, nel proemio del De medicina è costretto a spiegare la disciplina ricorrendo al greco: dieta, chirurgia, pharmacia non facevano parte del lessico latino corrente.
Il punto è che la medicina romana arcaica, quella dei Latini più o meno etruschizzati, era una medicina “primitiva” come quella degli altri popoli italici: parlava l’idioma locale e non teorizzava molto. Non era necessariamente peggiore di quella greca, ma la medicina greca aveva il vantaggio di spiegare, di costruire sistemi, di dare l’impressione – anche estetica – di essere superiore. E, diciamocelo, di essere più alla moda. Così, se la medicina parlava greco, il latino dovette adattarsi: prese in prestito vocaboli, ne creò di nuovi per calco, costruì lentamente una propria lingua tecnica. Ancora oggi parliamo di empiema, cefalea, catetere: termini latini derivati dal greco in quell’epoca lontana.
E meno male che il latino riuscì a dotarsi di una lingua tecnica della medicina. Dopo il collasso dell’Impero romano d’Occidente, il greco si parlava, si leggeva e si capiva quasi esclusivamente nell’Impero bizantino. In Occidente, semplicemente, grece non legitur. E con il greco scomparve anche gran parte della letteratura medica imperiale.
Lo stesso accadde all’arabo. Anche l’arabo, in origine, non possedeva una propria lingua tecnica della medicina. Con l’espansione dell’Islam e la fioritura culturale che ne seguì, assorbendo i grandi centri di cultura dell’Asia e dell’Africa settentrionale, dovette fare ciò che aveva fatto il latino: ricorrere a prestiti e calchi dal greco, ed in misura minore dal siriaco.
La lingua tecnica, insomma, è una lingua elastica: muta con il mutare della tecnica e delle società che la producono. Lo si vede bene anche in ambiti meno “nobili”: basti pensare alla lingua della cucina e della gastronomia tra Otto e primo Novecento, ricchissima di lemmi francesi.
Accanto alla lingua tecnica esistono però la lingua d’uso e la lingua letteraria: entità distinte, con una storia propria. Non è però affatto scontato che contaminare la lingua parlata con vocaboli tecnici sia sempre una buona idea. Talvolta è pericoloso. Talvolta è semplicemente un po’ grottesco.
Oggi la medicina parla inglese. Spesso in modo eccessivo, ma è una fase storica comprensibile: nel mondo globalizzato ci si capisce in inglese, ed è in sé un fatto positivo. Più problematico è applicare modelli concettuali e linguistici costruiti su una determinata popolazione e volerli generalizzare per contesti antropologici anche molto diversi, magari partendo dall’idea – ingenua – che biologicamente siamo tutti uguali. Ma questo è un tema complesso, che non riguarda la lingua in sé, bensì chi la usa, talora con un eccesso di zelo “professionale”.
L’altro giorno ho incontrato una studentessa del sesto anno di medicina, piuttosto brillante e sveglia, che però non riusciva a esprimersi in italiano parlando di questioni mediche senza infilare nel discorso un buon venti per cento di parole anglofone onestamente del tutto inutili. Talvolta persino pericolose. Quando dici caregiver, a cosa stai davvero riferendo? Una persona? Un ruolo? Un ente? Un essere umano o una struttura? Io ho fatto il medico, e un mio amico fa l’infermiere, entrambi ad un buon livello tecnico e umano. Un caregiver, così com’è, potrebbe essere anche un robot, per quanto ne so. Nessuno mi ha mai spiegato con precisione cosa significhi in italiano.
Poi c’è un altro fenomeno: l’uso di termini non tecnici, ma comunque anglofoni, perché ritenuti più “corretti”. È qui che la lingua scivola pericolosamente nel grottesco.
Un mio giovane collega e amico, molto preparato e che stimo sinceramente, durante una lezione sulla storia della sifilide è caduto in quello che definirei un tranello linguistico. Ha detto che una delle fonti di contagio sifilitico erano le sex-workers. Ora, ammesso e non concesso che il termine sia corretto e inclusivo – nel mondo anglosassone ha in realtà un significato ampio e sfumato – che bisogno c’era? Capisco che “meretrice” o “prostituta” possa sembrare poco elegante in aula, ma anche la sifilide non è certo una malattia da educande.
Del resto, puttana era già stata sdoganata da Dante, parlando di Taide, etera e adulatrice dell’Eunuchus di Terenzio:
Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi appo te?”: “Anzi maravigliose!”
Lasciamo pure da parte il Berni e la commedia cinquecentesca: sarebbe troppo facile. Ma che dire dell’Ariosto (Orlando furioso, XXXV)?
Da l’altra parte odi che fama lascia
Elissa, ch’ebbe il cor tanto pudico;
che riputata viene una bagascia,
solo perché Maron non le fu amico.
E poi il Marino (“meretrice impudica, i tuoi diletti…”), la sgualdrina vecchia / là sull’uscio del buon Giosuè Carducci, o Cesare Pavese che nel suo Mestiere di vivere annota, senza infingimenti, che le puttane battono a soldi. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi: da D’Annunzio a Panzini, da Pirandello a Iginio Ugo Tarchetti.
Certo, si potrebbe obiettare che questa è lingua letteraria. E anche, ahimé, che oggi ci si indigna davvero per poco e che non ti difende nessuno dagli stupidi. Dunque è meglio mascherare, attenuare, aggirare. Il mio bravo collega, in fondo, lo posso capire. Non proprio condividere, ma capire sì. Io, del resto, sono ormai un quasi-extraterrestre, figlio di un’epoca in cui la lingua circolava con maggiore libertà, e forse con meno cautele.
Resta però una sensazione che non riesco a scrollarmi di dosso. Quando la lingua smette di servire la chiarezza preferendo segnalare un’appartenenza, allora qualcosa si è già incrinato. Forse varrebbe la pena recuperare una virtù un po’ fuori moda: il decoro linguistico. Chiamare le cose con il loro nome quando serve, usare il tecnicismo solo dove è necessario, ricordarsi che la lingua della medicina – come ogni lingua del sapere – dovrebbe prima di tutto illuminare. Anche perché, quando la lingua si ammala, raramente è una patologia isolata.
E poi quando penso a tutti coloro che, nella nostra sanguinosa storia, hanno perso la vita perché noi potessimo parlare liberamente, anche male, anche impropriamente, anche con parole scomode, mi viene il magone.
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