Addio alla braciola pugliese?

Ci risiamo...

Zagarolo è un bel borgo medievale immerso nella campagna laziale, a una trentina di chilometri da Roma. È uno dei tantissimi borghi dell’Italia centrale; per me, però, resta soprattutto il luogo che ha dato i natali a uno dei più interessanti compositori del Novecento italiano: Goffredo Petrassi. 

Credo che l’ascolto del suo Coro di morti, quando ancora andavo alle scuole medie, mi abbia aperto per la prima volta la mente verso le nuove sonorità di quella disgraziatissima musica del Novecento che ha tentato, spesso più per convinzione ideologica che per reale percezione armonica, di “riabilitare” la dissonanza, arrivando quasi a elevarla a fondamento. Via le consonanze, un po’ borghesi: dentro il “diverso” in musica, compresa la parità dei dodici suoni, fino alla tentazione (talvolta) dell’obbligo “per legge” di usarli tutti, nessuno escluso. Tutti sappiamo come è andata a finire: gli ascoltatori impegnati dell’epoca (compreso il sottoscritto, lo ammetto) sono poi passati in massa al jazz (ma non il sottoscritto), che in fondo è un purgatorio per le anime belle, dove si comincia insieme, si finisce insieme, e il resto è “cifra stilistica”. 

Recentemente ho scoperto che, oltre che per Petrassi, Zagarolo è conosciuta per un piatto tipico: il tordo matto. Che poi è un involtino di carne di cavallo, farcito con un battutino di grasso di prosciutto, aglio, prezzemolo, sale, coriandolo e altre spezie locali, cotto alla brace o rosolato in padella. Ho semplificato molto la preparazione, lo so: è giusto per dare un’idea. Il tordo matto è anche un involtino “ad origine controllata”, se non altro perché gli zagarolesi gli rivendicano cinquecento anni di vita, che non sono pochi. E dunque, dopo il riconoscimento dell’UNESCO alla cucina italiana, questo involtino zagarolese è, per estensione, patrimonio dell’Umanità come il Taj Mahal o la Grande Muraglia cinese. 

Però. Ovviamente c’è sempre un però, quando si parla di eccellenze nazionali, specialmente di questi tempi. Da quando è nato un ministero del “made in Italy” (espressione buffa: trovo sempre curioso difendere l’italianità con un’allocuzione inglese), si è scatenata una gara tra intellettuali — quelli del jazz, presumo — a chi la sparava più grossa contro la cucina italiana. Due libri per tutti: La cucina italiana non esiste e La carbonara non esiste, libri assolutamente da leggere per avere la certezza, dalle argomentazioni e dal tono, che l’unica cosa a non esistere davvero, come studiosi e intellettuali, sono giustappunto i loro autori. Comunque, la rivolta non ha avuto successo: è arrivato anzi, pochi giorni fa, il riconoscimento internazionale per la tipicità della cucina italiana. 

Devo dire che nella scena politica circolano personaggi che magari non brillano come Soloni, ma che conservano una certa onesta tignosità quando si tratta di fare opposizione creativa. Perché non mi riuscirete a convincere che una proposta di legge che, in pratica, mira a proibire la macellazione dei cavalli e il commercio di carne di equidi sia dovuta soltanto a motivi “etici”. La proposta — rilanciata anche con una conferenza stampa alla Camera il 9 dicembre 2025 — includerebbe il divieto di macellazione degli equidi e misure di tutela, monitoraggio e riconversione degli allevamenti. Addio tordo matto, addio stracotto d’asino alla mantovana, addio a quelle superbe braciole pugliesi, addio alla bresaola — quella vera — e così via. Sostituiremo il cavallo con il manzo, almeno finché sarà possibile; ma non mi venite a dire che “in fondo è uguale”, altrimenti vi meritate davvero il McDonald’s. 

Addio davvero? Certo che no. È solo una proposta dell’opposizione, per fortuna. Dissonanze, direbbero gli zagarolesi petrassiani: quelle che pochi grandi, come il loro concittadino, sapevano padroneggiare e trasformare — non sempre, sia chiaro — in capolavori sonori. Ma nella fattispecie non vedo grandi genialità all’orizzonte. Le braciole, a mio parere, sono salve. 

Questo non vuol dire che non si debbano moralizzare allevamenti e macelli, regolare e controllare la produzione e l’uso della gonadotropina sierica della cavalla gravida, e così via: ci mancherebbe altro. Ma per farlo bisogna fare davvero i conti con la realtà: studiare, pianificare, sostenere. Insomma, la questione, come spesso accade, è se si voglia fare una legge per cambiare davvero qualcosa (con progettazione e verifica di costi, controlli e conseguenze) oppure proporre una legge pensata soprattutto per certificare virtù, magari attraverso il riflesso della proibizione e una certa inclinazione alla censura (vedi, per esempio, la discussione pseudoscientifica sul vino).

A me pare un fenomeno più di equinità comunicativa che di equità del diritto positivo.

Lo so: è una battuta pessima. Perdono. 

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