A pane e vino

Economia, cultura e simbolo nella dieta medievale

Chi mi segue ormai da un anno e mezzo su questa newsletter si sarà forse domandato come mai scriva così spesso di vino. Le ragioni sono numerose, e una di queste è che il vino è un argomento centrale per chiunque si occupi del Medioevo occidentale e della sua società.
Certo, il vino è importantissimo anche nel mondo greco-romano e bizantino e in alcuni aspetti di quello arabo-islamico al tempo della sua grande fioritura intellettuale. Tuttavia, in tutto il lungo periodo che noi chiamiamo Medioevo, il vino assume un carattere di necessità, oltre che di consuetudine. Se ne rese conto molto bene san Benedetto da Norcia quando, nello scrivere la sua Regola monastica in aderenza con le consuetudini del monachesimo orientale, dovette decidere se proibire o meno il vino ai monaci. Risolse a favore del vino, che d’altronde era, nel disastrato Occidente latino, la normale bevanda — almeno nei territori adatti alla coltivazione della vite. Togliere il vino ai monaci sarebbe stato controproducente, quasi come proibire il pane.

Oggi parliamo molto di dieta mediterranea e, in ambito più specialistico, della triade “sacra” dell’alimentazione antica (e moderna) dei popoli che si affacciano al Mare Nostrum: grano, vite e olivo costituiscono la base, fattuale e simbolica, della nostra cultura.
A proposito dell’olio, si potrebbero fare distinzioni interessanti, ad esempio su quali e quanti grassi si utilizzassero nel desco comune, ma questo è un argomento complesso, legato a fattori geografici, produttivi e commerciali. Sta di fatto, però, che pane e vino sono onnipresenti, anche in zone dove il frumento non cresce: magari fatto di mistura, cioè composto da sfarinati “poveri” provenienti da miglio, veccia o avena, il pane restava la base del sostentamento, a parte le polente (di castagne commestibili, introdotte nel basso Medioevo, di sorgo o di farro, ecc.), che però divennero più frequentemente “pane” comune in alcune aree solo dopo l’introduzione del granturco, quindi a partire perlomeno dal XVI secolo.

Riguardo alla produzione di vino, nell’Europa meridionale ritroviamo vigne un po’ dappertutto. La produzione vinicola, come ad esempio in Francia, assunse anche un valore commerciale enorme, vista la richiesta proveniente dai paesi del Nord, come l’Inghilterra, dove la vite non produceva granché o non cresceva affatto.
Il vino era più o meno alla portata di tutti, anche se la qualità — e dunque il prezzo — variava molto. Nell’Italia basso-medievale gli statuti cittadini privilegiavano ovviamente il vino locale, riservandosi di autorizzare l’importazione di quello forestiero. Tuttavia, certi vini speciali, come il “vino greco”, venivano importati senza particolari vincoli amministrativi, probabilmente grazie al loro uso medicinale. Le norme sui venditori di vino al minuto erano severe, e altrettanto le pene per chi falsificava misure o qualità.
Insomma, il vino, assieme al pane (e alla carne), era uno dei presidi alimentari su cui si fondavano le comunità dell’Occidente mediterraneo. Anche i poveri bevevano vino, magari di bassa qualità, come l’acquarello, ottenuto bagnando le vinacce dopo la spremitura e torchiando di nuovo la miscela: un vino acido e leggero, ma sempre meglio dell’acqua — bevanda, al tempo, non sempre salutare.

Il vino era una presenza così importante nella vita quotidiana che, ad esempio, quando il celebre medico Gentile da Foligno, commentando un passo sulla febbre pestilenziale del Liber Canonis, si trovò davanti alla proibizione del vino nella dieta dell’ammalato, osservò che sì, ciò sarebbe stato facile nel paese di Avicenna, dove il vino non si beve, ma dato che “qui” le abitudini sono altre, bisogna comunque concederne un po’, anche nella febbre pestilenziale, per non infliggere al malato — diremmo oggi — un trauma psicologico, privandolo della sua bevanda quotidiana. E ricordiamoci che tra san Benedetto e Gentile passano più o meno ottocento anni.

Pane e vino, dunque, come base alimentare: per migliorare l’apporto proteico si mangiavano anche un po’ di carne e legumi, ma pane e vino fornivano comunque l’energia per lavorare. Tant’è che “essere a pane e vino” di qualcuno significava essere al suo servizio. Il pane e il vino, quindi, non dovevano certo mancare nella paga dell’operaio.

Da uno statuto del XIV secolo - essere “ad panem et vinum”

In un celebre processo, celebrato nel castello di Gerfalco nelle Colline Metallifere, allora nella giurisdizione volterrana, su una complicata questione di confini riguardante il castello e la terra della vicina Travale, uno dei testimoni dice (ed il notaio ne riporta le parole senza tradurle):

“[…] de la Montanina dicit: Io de presi pane e vino per li maccioni a Travale de illa que est da Casa Magii dicit quod non recepit inde servitium.”

I maccioni sono gli operai, che per il loro servizio vengono riforniti di pane e vino. Tra l’altro, gli atti di questo processo rappresentano uno degli esempi più antichi del volgare italiano (siamo nel 1158). Tra l’altro si ritrova, negli atti di questo processo la celebre frase “Guaita guaita male no mangiai che mezo pane” (“La guardia l’ho fatta male ma non mangiai che mezzo pane”) che tutti abbiamo studiato a scuola come primo esmpio di lingua volgare e che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro a filologi e italianisti. Ripensando alla formula “stare a pane e vino” verrebbe da pensare che Malfredo, la guardia, non ebbe il suo pane e il suo vino, oppure non era davvero “a pane e vino” (ma solo a “mezzo pane”) e quindi si licenziò, non andando più a fare la guaita. Una lettura forse ingenua, ma credo meno fantasiosa di quella che vorrebbe coinvolto il trovatore provenzale Raimbaut de Vaqueiras (“Gayta ben, gaiteta del castel!”) in una situazione di rovesciamento parodico della grida dei guardiani, come sostenne Leo Spitzer nel 1952. Tra l’altro, la frase è ricordata in tribunale da un testimone locale, un certo Poghino, laico di bassa estrazione, in una causa tra il vescovo e il feudatario locale: presuminilmente c’era poco da celiare. Ma sto divagando.

Un’ultima nota: pane e vino — ovvero la loro qualità — rappresentano lo status sociale della persona. Pane bianco e vino chiaro e trasparente sono destinati ai ricchi e ai nobili, specialmente il vino. Per i miserabili, invece, pane di scarsa qualità e vinello povero, se non addirittura acqua e aceto, cioè la negazione del vino.
Nel ms. 184 dell’Archivio di Stato di Lucca si conserva una ballata musicale anonima, probabilmente della seconda metà del XIV secolo, che riporta in tono caricaturale il lamento di un uomo caduto in disgrazia:

Deh tristo mi’ topinello
che son giunto al de rem punto
ca non mangiarò più d’unto
se non pan e rafanello

Ma quale pane? Certamente non il pane bianco, né quello bigio d’orzo, ma un pane di infima qualità, fatto di cereali minori e legumi:

El pan serà de mestura
sozzo e negro com carbone
Questa sarà la mia pastura
per me povaro compagnone

E questo pane nero e sozzo lo si deve mandar giù, gollare, come si diceva allora. Con l’acqua, giammai: meglio con una bevanda, anche se miserabile quanto il pane. Con la possa, ovvero posca, cioè acqua e aceto, al posto di un merello, un buon bicchiere di vino:

Non posso manzar boccone
tanto è negro e ruzinente
me se ficca infra el dente
possa bevo d’un merello

Insomma, si temeva l’acqua da bere, e spesso si faceva bene. Ma soprattutto ricordiamoci che “essere a pane ed acqua” significava allora (e significa ancora oggi) essere in prigione o in penitenza…

Prosit!

 

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